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Breathing Underwater (Mul-sum) - Recensione (London Korean Film Festival 2016)

L’ultima generazione di haenyeo, una comunità di donne che da secoli sostengono l’economia dell’isola di Udo in Corea del Sud pescando in apnea le alghe e le conchiglie, in un documentario che è come un diamante grezzo

Nella sezione documentari del London Korean Film Festival 2016 è stato incluso Breathing Underwater, una bella narrazione di un matriarcato unico al mondo, premiato al Jeonju International Film Festival.
La regista Ko Hee-young è tornata nella sua provincia natale, la grande isola-provincia di Jeju e ha seguito per 7 anni, sulla piccola isoletta di Udo, l’ultima generazione di haenyeo (le donne del mare), una comunità di donne che da secoli sostengono l’economia dell’isola pescando in apnea le alghe e le conchiglie che il mare di quella zona meridionale della Corea del Sud offre alla sua gente.
Il mare di Jeju è ricco e generoso, ma Udo non ha l’aspetto della tipica isola tropicale: con le sue rocce vulcaniche e le sue nebbie sembra piuttosto un luogo nordeuropeo e l’acqua anche d’estate arriva a malapena a 19 gradi. Le haenyeo si preparano e scendono in acqua ogni giorno con la loro attrezzatura fuori dal tempo, maschere rotonde come quelle di una volta, mute rattoppate e qualche maglietta colorata a dare un tocco frivolo all’uniforme di un lavoro durissimo e fisicamente massacrante. Ma quello che veramente stupisce è l’età di queste donne, che si aggira tra i 45-50 a ben oltre gli 80. Nessuna giovane di oggi vuole fare questo mestiere e le stesse haenyeo si augurano che le loro nipoti non debbano seguire le loro orme ma che possano studiare ed avere una vita più confortevole.
La piccola comunità è governata da una rigida gerarchia dettata dalle capacità fisiche delle apneiste. Uno dei fattori che determina lo status è l’innata predisposizione fisica a trattenere il respiro e un altro è ciò che si ottiene con l’esercizio. Queste capacità di immersione determinano le aree di pesca, da quelle meno profonde e quindi meno fruttuose ma generose di alghe come l’agar-agar, a quelle profonde e ricche di preziosi abaloni e polpi e dove le più esperte si immergono fino a 20 metri.
Le haenyeo pescano per ore ed ore raccogliendo le prede in reti attaccate alla loro boa, incuranti della pioggia, il sole o addirittura la neve. Tornate a casa preparano l’unico pasto della giornata che condividono con la famiglia. Un curioso matriarcato, un’isola in tutti i sensi, in un Paese che è ancora molto indietro con l’emancipazione femminile. Queste donne esauste, ma con una resistenza incredibile, mettono tutti i giorni la loro vita nelle mani del proprio senso di controllo. Controllo della respirazione e controllo di quando risalire, perché il mul-sum (il titolo originale, che vuol dire 'un po’ di più') è sempre in agguato. Mul-sum è il desiderio pericolosissimo di respirare sott’acqua, tristemente causato dall’avidità, dal voler restare sotto un po’ di più per non lasciar andare una presa ricca, un polpo o un abalone incastrato. Il mare dà tanto e il mare sa anche togliere, tante sorelle, figlie e madri sono state tradite dal mul-sum e l’ultimo saluto alle vittime è un rito sciamanico che va indietro nel tempo di secoli.
L’aspetto più interessante che emerge da questo documentario è il cameratismo che unisce le donne. Come se passare gran parte del giorno in mare non bastasse, le haenyeo si incontrano spesso e parlano del mare e della loro attrazione e al tempo stesso dipendenza da esso. Alcune descrivono il mare come loro sposo, ciò che dà loro da vivere e provvede al sostentamento dell’intera famiglia e agli studi e le scuole dei figli e nipoti. Una simbiosi incredibile che mi ha stranamente ricordato un film molto diverso e inquietante, Evolution, dove una comunità di sole donne, figlie del mare, si prende cura di bambini su un'isola vulcanica e primordiale.
Verso la fine il film accenna alla proposta che è stata fatta di rendere le haenyeo un patrimonio culturale protetto dell’UNESCO, non solo come riconoscimento ma anche come essenziale necessità di conservazione. Non aspettatevi un documentario alla Attenborough, Breathing Underwater è un diamante grezzo, le immagini sono belle e commoventi ma c’è una certa rusticità nel montaggio e nel suono che comunque sono perdonabili per l’onestà e l’unicità del tema. Probabilmente non arriverà in Italia ma vale la pena cercarlo.

Un bonus inaspettato alla visione di Breathing Underwater che si è svolta negli affascinanti e misteriosi locali del British Museum è stata l’aggiunta finale del cortometraggio Whose Kimchi? con cui il fotografo e accademico olandese Sander Holsgens vinse un concorso indetto dal LKFF durante la scorsa edizione. Holsgens, che ha speso 7 anni in Corea el Sud a Maseok per lavoro e ricerca, ha creato un vivido ritratto della preparazione casalinga del kimchi a casa di Kim Sungja, un'allegra e appassionata preservatrice di questa tradizione. Il kimchi è una conserva fermentata che è alla base di molti piatti e condimenti della cucina coreana ed è solitamente preparato in casa in grosse bacinelle e conservato in barattoloni durante l’anno, anche se ora, sempre di più, si tende a comprare il kimchi del supermercato. Ma quello che Sander Holsgens con il suo piccolo documentario esplora nei 10 minuti della durata, è il senso di appartenenza che il kimchi casalingo porta con sé e il suo conseguente valore nella cultura coreana. Ogni kimchi famigliare ha un sapore diverso e quel sapore è 'casa'.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3

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Adriana Rosati

Segnata a vita da cinemini di parrocchia e dosi massicce di popcorn, oggi come da bambina, quando si spengono le luci in sala mi preparo a viaggiare.

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