The Apprentice - Alle origini di Trump - Recensione
- Scritto da Davide Parpinel
- Pubblicato in Film in sala
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Donald Trump è newyorkese, del Queens per l’esattezza, ed è il figlio biondo di un imprenditore edile che ha costruito molti palazzi residenziali destinati soprattutto a un’utenza popolare. Il giovane Donald riscuote i soldi degli affitti, si fa gettare addosso l’acqua bollente da chi non vuole pagare, e soprattutto non ha verve. Ha le idee giuste, ma gli manca lo spunto, la voracità dello squalo. Roy Cohn, il grande avvocato, anche lui di New York, un mito in terra di spregiudicatezza, cattiveria, slealtà e scorrettezza è che ciò che serve nella vita del giovane Donald. Cohn difende la famiglia Trump in un processo di discriminazione razziale mosso contro di loro dal Comune e soprattutto insegna a Donald come essere il re del mondo. Così il biondo ragazzo, diventa l’immobiliarista più ambizioso della Grande Mela; si sposa, ha dei figli, cerca di truffare tutti e non paga i debiti, ma si ricorda di Conh e di quello che lui ha fatto per lui?
L’apprendista del titolo, chi è? Donald Trump si potrebbe dire. Effettivamente è così. All’inizio del film il Trump interpretato da Sebastian Stan ha un gran bisogno di una guida, di una persona che indirizzi la sua carriera nel modo giusto, perché il ragazzo ha voglia di affermarsi, di scrollarsi di dosso il grande valore di imprenditore del padre e di costruire, letteralmente, qualcosa di suo. Insomma il perfetto sogno americano. Ali Abbasi, il regista, definisce questa visione con un’estetica patinata, ridonante e colorata come la fine degli anni Settanta negli Stati Uniti. Ci sono le luci soffuse dei bar, i divanetti con la tappezzeria, le feste eccessive e piene di droghe e la volontà di vivere oltre le regale. Il personaggio di Trump pensato dal regista è riservato e titubante, un bravo ragazzo che quando si scontra con questo mondo, incarnato dall’aggressivo Roy Cohn, rimane perplesso. Si palesa sul volto di Stan, quindi, un’espressione dubbiosa, quasi schifata per gli eccessi, e soprattutto non troppo convinta che i metodi illegali, i ricatti perpetrati dall’avvocato facciano per lui. Delle regole d’oro che Cohn gli confida per avere successo, però, il giovane Trump ne fa un gran tesoro, e così si arriva alla seconda parte di The Apprentice. Qui Donald Trump è diventato Donald Trump. Ha sposato Ivana (Maria Bakalova), prendendola quasi per sfinimento, ha costruito la Trump Tower e i casinò ad Atlantic City e ha dimostrato la sua grande arroganza, esprimendo al meglio la filosofia della sua vita: attaccare. L’interpretazione di Stan, però, non restituisce il cambiamento nel personaggio. Se non fosse per qualche parola urlata in più o per uno sguardo più tagliente, il Trump di inizio pellicola non è molto diverso dal secondo. Questo accade perché Abbasi nella prima parte organizza attorno al personaggio un linguaggio ben preciso fatto di inquadrature dal basso, di musica che scandisce le fasi del racconto, di confronti verbali carichi di massime e insegnamenti (Cohn verso Trump) e dell’estetica già citata. Nella seconda parte del film, tutto questo è sottratto; rimane il dialogo come forma di confronto e anche la macchina da presa che prima si muoveva velocemente, ora si ferma per lasciare a campo e controcampo esprimere i nuclei tematici della storia. Chi cambia in questa parte del film, è la pazzesca interpretazione di Jeremy Strong che caratterizza Cohn con una forte verosimiglianza. Il personaggio passa dall’essere onnipotente, ad avere una fragilità dovuta a questioni di salute che lo pongono sulla difensiva e a elemosinare da Trump un po’ di attenzione, dopo che lo aveva scaricato come suo avvocato in un delirio di onnipotenza. Quindi è lecito domandarsi, ma il protagonista di The Apprentice è Donald Trump o Roy Cohn? Stando alle interpretazioni, rimane più vivida nella mente quella di Strong. A parte avere una preponderante ossessione per il suo fisico, tanto da arrivare a farsi la liposuzione, a correggere chirurgicamente la calvizie e a reprimere dentro di sé tutte le emozioni, Donald Trump in The Apprentice non provoca né disgusto, né fascinazione. Infatti, la domanda successiva da porsi è: The Apprentice è un film sull’uomo Donald Trump o su come è nato il grande mito-Trump? Nel caso in cui la risposta fosse la prima ipotesi, può risultare plausibile, perché il regista mostra per lunga parte della pellicola come nasce, si sviluppa e sfiorisce l’amicizia tra il tycoon e l’avvocato. Le parole di stima che si scambiano, gli affetti, le attenzioni permettono a chi guarda di comprendere quanto importante soprattutto a livello umano sia stato quel rapporto tra i due, a tal punto da pensare che Cohn è stato più di un amico per Trump. Poi, però, nella parte del rifiuto a cui fa seguito un finto riavvicinamento, emerge il Trump-squalo, quello che con la sua retorica vuota ottiene ciò che vuole. Quindi, The Apprentice è un film sul personaggio Trump e l’apprendista del titolo è Trump. Ma poi apprendista di cosa? Nella seconda parte il modo scorretto di agire e l’arroganza trasmessa da Cohn si perde, per privilegiare la visione del Trump uomo che cura la sua immagine, che mente a tutti soprattutto in ambito famigliare (con Ivana, con le sue amanti, con i suoi genitori, con suo fratello) e solo di riflesso negli affari.
Insomma, il film di Ali Abbasi è disseminato di interrogativi, perché non è chiaro da che parte voglia stare. Cerca di restituire i risvolti dell’essere Donald Trump, senza però approfondire. Per questo il personaggio di Cohn nel corpo e nel volto di Strong primeggia, perché mantiene, nonostante quanto gli accada, un profilo definito con un mutamento psicologico e un’evoluzione visibile, in confronto alla piattezza dell’interpretazione di Stan/Trump. The Apprentice comunque tra musiche pop, giochi di luci e l’eleganza dei costumi si lascia guardare, perché è molto fedele nella definizione della cornice sociale e culturale dell’epoca. Ma poi resta poco altro. La seconda parte si trascina fino alla parte finale che arriva aspettata e prevedibile. Se The Apprentice avesse parlato di due personaggi inventati, non sarebbe stato diverso, anzi forse sarebbe stato meglio.

Davide Parpinel
Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.