Parthenope - Recensione
- Scritto da Davide Parpinel
- Pubblicato in Film in sala
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Parthenope nasce nel 1950 nel mare di fronte a Napoli che bagna il palazzo in cui la sua famiglia vive. Parthenope, così chiamata dal Comandante suo padrino, nonché proprietario del cantiere navale gestita dal padre della ragazza, ha un fratello Raimondo, più grande e più tormentato. La vita passa, arriva il 1968 e con lui una vacanza estiva a Capri di Parthenope, Raimondo e Sandrino, amico di entrambi segretamente innamorato della ragazza. La ragazza vive un’estate fascinosa e conturbante, qual è lei. Incontra il suo scrittore preferito, John Cheever, ammalia chiunque, si circonda di una umanità adorante nei suoi confronti, ma non rimane vicino alle inquietudini del fratello che compie, così, un gesto tragico. La vita, così, per la famiglia di Parthenope si interrompe, mentre la ragazza è divisa tra lo studio dell’ antropologia e un’ ipotetica carriera da attrice. Arrivano gli anni Settanta e forse Napoli alla ragazza comincia a stare stretta, per quanto non riesca a staccarsene. Diviene assistente del professore con cui si è laureata e poi.. e poi… altri amori, altre illusioni, altri pensieri per la vita di Parthenope.
La domanda da porsi è: che cinema sta diventando quello di Paolo Sorrentino? Come già descritto nella puntata 24 del nostro podcast La Luce del Cinema, la poetica cinematografica del regista napoletano si muove tra la narrazione e le immagini costruite di film in film con una fascinazione e un’atmosfera che ha pochi paragoni nel cinema contemporaneo. Questo equilibrio, a volte un po’ sbilanciato verso le immagini, costituisce il solco in cui il regista gira i suoi omaggi e le sue analisi. Dopo Roma con La Grande Bellezza, ora tocca a Napoli con Parthenope. Come è Napoli secondo Sorrentino? Bella, conturbante, affascinante, arrogante, con la risposta sempre pronta, indecisa, spaventata, che non sa cosa vuole, come è il personaggio di Parthenope, interpretato da Celeste Dalla Porta alla sua prima apparizione cinematografica. Se l’è cavata bene l’attrice nell’incarnare questo ideale di bellezza, dimostrando la capacità del regista di saper plasmare i suoi attori sulle sue scelte come visto con Alice Pagani in Loro e Filippo Scotti in É stata la mano di Dio. Parthenope è la bellezza, è il fascino di qualcosa che si vuole avere a tutti i costi, perché il desiderio è forte, ma non si può avere perché inarrivabile. L’unico che riesce a capirla e carpirla è il prof. Marotta, un Silvio Orlando nel pieno del suo cinismo e della sua idiosincrasia nei confronti degli esseri umani, che infatti, giustamente le insegna cosa studia l’antropologia. Parthenope vuole conoscere l’uomo, studiarne la sua natura e la sua relazione anche con il territorio, come se Napoli volesse capire il suo posto nel mondo. Ed ecco perché Parthenope si avventura nei vicoli di Via dei Tribunali con un noto esponente della camorra e si lascia ammaliare dal Vescovo di Napoli, chiamato non a caso Tesorone (Peppe Lanzetta, sempre bravissimo) così da scoprire il tesoro di San Gennaro. L’indagine di Sorrentino nei confronti della sua città è, quindi, letteralmente, antropologica e sociologica e si basa anche sugli effetti della ragazza (o di Napoli) sulle persone. C’è magia e un desiderio incredibile di averla, ma anche di repulsione. Raimondo (Daniele Rienzo), il fratello della protagonista, non riesce a staccarsi dalla sorella, eppure se ne allontana. Riprendendo, così, Jean-Luc Godard il quale è stato l’unico in grado di mostrare con grande precisione nel cinema l’attrazione e il senso di repulsione di un uomo nei confronti di una donna, Raimondo è geloso e possessivo verso Parthenope; le si avvicina e poi se ne allontana, come se non riuscisse a staccarsi da lei e da Napoli, anche se non la accetta, e per questo, vive inquietamente. Tanta bellezza può far male, dice lui stesso. Chi riesce, dunque, a stare dietro a Parthenope? Forse nessuno, nemmeno Sorrentino che infatti la giudica pesantemente dal di fuori, dal punto di vista di quel ragazzo cresciuto che nel finale di È stata la mano di Dio ha lasciato la città partenopea, nonostante il personaggio di Antonio Capuano gli abbia detto di raccontarne la bellezza. E da qui nasce il monologo pieno di acredine e di rabbia dell’attrice Greta Cool che ha la voce e il corpo di Luisa Ranieri, sempre perfetta nelle sue immedesimazioni, che odia il provincialismo di Napoli e la sua arroganza egocentrica, caratteristiche di cui è accusata non a caso anche Parthenope, delusa dalle parole (vere) del seduttore maturo che la considera, inoltre, poco intelligente. Insomma in questo film Sorrentino stratifica molti i significati e le analisi sulla sua città, creando una base solida che forma la sua idea a tratti espressa in maniera ridondante, soprattutto nel finale. Le immagini dei festeggiamenti dello scudetto del Napoli, per quanto sia stato un evento importante per la città e per il regista, tolgono la poesia di un finale che si poteva chiudere con la frase della giovane protagonista sull’amore.
All’inizio mi sono posto un interrogativo ossia che cinema sta diventando quello di Sorrentino? Parthenope dimostra che quel processo di creazione di immagini coinvolgenti, sensoriali, in cui il regista riesce a far sentire il profumo dell’aria, intrapreso con La Grande Bellezza, è arrivato con Parthenope a un livello esagerato. Il film a tratti è notevolmente etereo, per poi proporre poche scene fitte di parole in cui il regista tira le file concettuali di quanto mostrato. Non che sia un male, anzi! É un modo di fare cinema e a Sorrentino riesce molto bene, perché tutta l’analisi sin qui proposta è nata dalla sola osservazione delle immagini. La narrazione si è, però, un po’ troppo disintegrata, i dialoghi sono diventati evanescenti, intrisi di piccole parole e focalizzati su grandi interpretazioni del volto degli attori. Si può parlare di deriva del cinema di Sorrentino? Credo proprio di no. Si può parlare di evoluzione, di crescita, di un cambio attraverso cui mostrare la propria idea. A mio parere il regista sta portando nel cinema quello che Louis-Ferdinand Céline ha creato con la sua letteratura (infatti molti suoi film si aprono con una citazione dalle opere del francese), ossia, tra le altre cose, raccontare le sensazioni, le idee che nascono dalle percezioni. Considerate questo: la letteratura di Céline si basa sulla sua stessa vita e sulle sue esperienze trascorse; le sue opere esplorano la natura umana e le miserie della vita, utilizzando un connubio tra il linguaggio delle classi popolari e un linguaggio ricercato, condendolo con un forte umorismo nero. Nelle opere dello scrittore francese emerge spesso la concezione di una vita priva di senso e valore, caratterizzata dal dolore, dalla miseria, dalla fatica e dalla malattia. Non si può parlare anche del cinema di Sorrentino in questi termini? La scrittura di Celine è cruda, ma se si toglie l’aspetto fascinoso delle immagini, cosa rimane di Parthenope? Un giudizio tagliente del regista verso la sua città.
Insomma, è un buon film Parthenope? Scrivere di un concetto in letteratura è complesso, ma più praticabile (certo ci vuole una gran maestria), rispetto al cinema, perché ci sono le parole. Come si fa a esprimere con le immagini un’idea? Morte a Venezia, 8 1/2 sono due assoluti esempi, al contrario di altri film che ci riescono non in maniera sempre bilanciata e per questo comprensibile per chi guarda.

Davide Parpinel
Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.