La corte - Recensione
- Scritto da Simone Tricarico
- Pubblicato in Film in sala
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In un festival come la 72esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia penalizzata da pellicole spesso talmente pretenziose da sfiorare il parossismo, ecco apparire un piccolo film in grado di declinare introspezione e buoni sentimenti con amabile freschezza.
Il presidente della Corte d’Assise Xavier Racine (Fabrice Luchini) è un uomo solo: si sta separando dalla moglie, conduce una vita anonima e ripetitiva e viene considerato una carogna dai suoi colleghi di tribunale, con cui non ha che distaccati rapporti lavorativi. Un caso complicato d’infanticidio, però, sembra scuotere la sua esistenza sbiadita: fra i membri della giuria chiamata ad emettere un verdetto, infatti, c’è Birgit Lorensen-Coteret (Sidse Babett Knudsen), una bella dottoressa che anni prima lo aveva curato dopo un brutto incidente. Il giudice non aveva mai trovato il coraggio di dichiararsi apertamente, così quel vecchio amore mai dimenticato era divenuto uno dei tanti rimpianti finiti ad affollare le sue giornate. La complessa vicenda processuale offrirà quindi al protagonista una possibilità per uscire dalla prigione emotiva in cui si trovava ormai rinchiuso da tempo.
Christian Vincent scrive e dirige una commedia dai risvolti drammatici che rivisita i toni tipici del legal drama con inaspettato umorismo e piacevole leggerezza. L’autore è bravo ad alternare la dimensione corale a quella più intimista e individuale, riuscendo a fornire una caratterizzazione sufficientemente approfondita per tutti i personaggi. I dialoghi sono spesso ricchi di un’ironia efficace e immediata, in grado di alleggerire e stemperare anche i momenti più drammatici e dolorosi. Il merito è di una sceneggiatura misurata capace di scandagliare con semplicità emozioni e sentimenti, nonostante le evidenti ingenuità, le semplificazioni e i cliché narrativi. Vincent calibra con abilità il suo approccio minimalista, mettendo in primo piano (alla sbarra?) i suoi attori, e infatti l’intero processo assume quasi un valore simbolico: sia l’imputato che il protagonista sono in attesa ciascuno del proprio verdetto, una sentenza che in entrambi i casi segnerà la loro vita. La regia non offre particolari spunti, ma si distingue per la raffinata messa in scena, coadiuvata dalla fotografia pulita di Laurent Dailland (che già aveva collaborato con Vincent nel precedente La cuoca del presidente). Evanescente, purtroppo, la colonna sonora, che rimane confinata in secondo piano per quasi l’intera pellicola.
La prova di Fabrice Luchini è particolarmente riuscita, ed è innegabile che buona parte del fascino del film sia attribuibile alla sua interpretazione, facilitata da un ruolo che sembra essere ritagliato su misura per lui, ricco com’è di conflittualità interiori, timidezza cronica, ossessioni e piccole manie.
L’hermine è un lungometraggio delicato e misurato, che regala con piacevole leggerezza emozioni e divertimento, mostrando con sensibilità (non senza una certa dose di furbizia) come il Cinema festivaliero possa liberarsi di intellettualismi stucchevoli e avari di soddisfazioni.
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Simone Tricarico
Pensieri sparsi di un amante della Settima Arte, che si limita a constatare come il vero Cinema sia integrale riproduzione dell’irriproducibile.