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Ma Loute - Recensione

Ma Loute - 2016 - Film - RecensioneIn uscita nelle sale italiane proveniente dal Festival di Cannes, Ma Loute di Bruno Dumont è una commedia grottesca nella quale domina uno sguardo spietato e sarcastico sulla borghesia contrapposta al sottoproletariato in una lotta di classe senza vincitori

Sulle scogliere francesi che si affacciano sulla Manica, poco prima che l’Europa intera venisse travolta dalla Grande Guerra, il regista francese Bruno Dumont mette in piedi il teatrino grottesco di una lotta di classe tra una borghesia stanca e alla deriva ed un sottoproletariato incattivito e senza speranza. Protagonisti di Ma Loute, appena giunto sugli schermi italiani proveniente dal Festival di Cannes, due famiglie: i Van Peteghem, ultimi brandelli di una classe borghese decadente, e i Brefort, raccoglitori di molluschi, lupi di mare e all’occorrenza traghettatori a spalle di ricchi benestanti timorosi di sporcarsi gli abiti nel fango della baia.
I Van Peteghem trascorrono le loro vacanze sempre uguali nella loro inquietante magione in rigoroso stile egizio in cima alla scogliera, sotto l’occhio indolente e un po’ rintronato del capofamiglia Andrè, gobbo e dai modi affettati: figli, sorelle, fratelli, cognati tutti uniti da un vincolo di parentela che travalica nell’incestuoso finalizzato alla conservazione del nome e sottomesso alle logiche industriali, percorsi da un nostalgico anelito alla restaurazione e da una fanatica fede religiosa. I Brefort, brutti, sporchi e cattivi che portano impressi nei volti le stigmate lombrosiane della loro condizione, vivono dei frutti strappati al mare con fatica fatta di schiene spezzate. Il contatto tra le due famiglie, oltre la viciniorietà è il legame impossibile tra il più grande dei figli della coppia di pescatori, Ma Loute, e Billy, la giovane nipote di Andrè che non si capisce se sia una donna che si veste da uomo o un uomo che si atteggia a donna. E siccome nella baia, negli ultimi tempi sono avvenute strane sparizioni di forestieri, non manca neppure il commissario di polizia Machin, un goffo ed obeso poliziotto che ricorda l’omino Michelin, il quale con metodi e sistemi singolari cerca di risolvere il mistero.
Come ben si capisce dalla seppur scarna sinossi, siamo di fronte ad una autentica forma di commedia grottesca, dove ci si gonfia, si vola, si lievita, si vaga tra le dune con tanto di nudisti ma soprattutto dove la classe borghese si specchia in maniera spietata. Ed in effetti, sebbene nel film non manchi la tematica della lotta di classe marxista, è la decadenza di una borghesia al limite del ridicolo, efficacemente tratteggiata da Dumont nei vari componenti della famiglia Van Peteghem, il nucleo portante del racconto; una famiglia nella quale gli scheletri negli armadi scricchiolano sinistramente e che senza quasi pudore mette in mostra tutta la sua mancanza di moralità sostanziale, seppur nascosta dietro un formalismo comportamentale ipocrita. Ma anche il contraltare della famiglia sottoproletaria ha i suoi misteri da nascondere, che altro non sono che la proiezione della mentalità borghese terrorizzata dalla violenza che scaturisce dalla disperazione. Insomma un ritratto dove ce n’è per tutti, Chiesa e polizia comprese, e dal quale emerge solo un personaggio capace di essere veramente rivoluzionario e quindi distruttore degli schemi precostituiti: Billy, il sessualmente ambiguo, unico che sembra avere dentro di sé ancora la scintilla dei sentimenti accesa.
Ma Loute è nel suo complesso lavoro molto francese, cinematograficamente parlando, nel senso che riprende quella sottile linea di denuncia e di scherno della borghesia, poco importa se di un secolo fa ormai, che vide ad esempio Claude Chabrol come uno degli autori più caustici e geniali. E siccome siamo tutti borghesi, Dumont compreso, è chiaro che la sarcastica commedia messa in scena dal regista è anche una profonda critica al formalismo e al perbenismo di facciata che ancora oggi permea la classe sociale.
Il film, che pure presenta svariati difetti, primo fra tutti una certa reiterazione che a tratti è anche fastidiosa, vive principalmente sui personaggi e sullo stereotipo che incarnano, una carrellata nella quale è ben poco arduo riconoscere rimandi alla nostra epoca e alla situazione storica della borghesia, in un paese, la Francia appunto, che ha praticamente visto la nascita e la crescita imponente di quella classe sociale.

Nel suo complesso il film è gradevole, soprattutto perché il tono è sempre su livelli da commedia divertita. Il suo messaggio, anche dietro metafora (guardate cosa mangiano i membri della famiglia Brefort…) è di chiara impronta sarcastica e grottesca e soprattutto i personaggi indubbiamente ben costruiti trovano degli interpreti eccellenti che ne arricchiscono lo spessore: Fabrice Luchini è portentoso nella parte di Andrè palesando un chiaro divertimento nell’impersonare il ridicolo personaggio, Juliette Binoche si esalta nell’interpretazione sopra le righe della infervorata sorella di Andrè e persino Valeria Bruni Tedeschi trova la sua giusta dimensione nella parte della isterica e psicolabile moglie di Luchini.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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