Recensioni film in sala

Ti trovi qui:HomeCinema e dintorniIn salaIo sono Ingrid - Recensione

Io sono Ingrid - Recensione

Io sono Ingrid - Stig Bjorkman - 2015La straordinaria figura di Ingrid Bergman raccontata attraverso un ritratto intimo e appassionante. Un tributo toccante e sincero, anche se a tratti eccessivamente celebrativo

Dopo il successo della premiere al Festival di Cannes 2015 (dove ha ricevuto la menzione speciale per il premio L'Œil d'or) arriva nelle sale italiane Io sono Ingrid, con un doppio appuntamento il 19 e il 20 ottobre. Il regista svedese Stig Björkman porta sul grande schermo la vita e l’arte di Ingrid Bergman in un documentario fascinoso, che esplora da un punto di vista prettamente familiare la carriera e gli affetti di una delle più celebri icone della storia della Settima Arte.
L’idea alla base della pellicola è quella di approfondire la dimensione più umana dell’attrice, trascurando volontariamente alcuni aspetti squisitamente cinematografici. Questa scelta si manifesta attraverso un meticoloso lavoro di ricostruzione storica e biografica, che sfrutta un archivio immenso di materiali personali: fotografie, filmati, appunti, diari, lettere e interviste di parenti e conoscenti (da Liv Ullman a Sigourney Weaver). Björkman è abile nello sfruttare questa enorme ricchezza di riferimenti per tessere un intreccio narrativo omogeneo e coerente, che racconta in maniera emozionante particolari inediti e rivelatori. Ne emerge un quadro intimo, che si concentra forse eccessivamente sul rapporto conflittuale tra la sfera pubblica e quella privata, sorvolando invece sulle tappe fondamentali della carriera da attrice.
Il regista procede inizialmente in ordine cronologico, partendo dall’infanzia difficile della Bergman (segnata dal lutto di entrambi i genitori) per evidenziare i tratti fondamentali del suo carattere: un incrollabile ottimismo, una fede ferrea e caparbia nella realizzazione della propria felicità e un amore viscerale per la recitazione. Proprio questa sua passione la porta a trasferirsi da Stoccolma ad Hollywood, grazie ad alcune interpretazioni teatrali che attirano l’attenzione della talent scout Kay B. Barrett (in seguito sua agente). Notevoli sono i contributi visivi di questo periodo (tra cui il filmato di un meraviglioso provino in cui traspare tutta la sua vitalità e bellezza), che testimoniano le prime collaborazioni con il produttore David O. Selznick e il progressivo imporsi delle sue doti recitative. Tuttavia, nonostante l’enormità di spunti offerti dal materiale d’archivio, i dettagli artistici che esulano dalla vita privata della protagonista sono a volte solo accennati: i riconoscimenti (ben tre premi Oscar), la collaborazione con Alfred Hitchcock e gli anni di affermazione nell’olimpo americano (accanto a personaggi come Humprey Bogart e Cary Grant) vengono ripercorsi con un approccio molto semplificato. Le testimonianze si focalizzano presto sulla vita sentimentale burrascosa della Bergman: dal primo matrimonio con Petter Lindström (con la nascita della primogenita Pia), all’amore per il fotografo ungherese Robert Capa, fino alla scandalosa relazione con Roberto Rossellini, che la porterà lontano da Hollywood provocandole grandi sofferenze per l’atteggiamento di condanna morale assunto da critica e pubblico. È questa la parte forse maggiormente dinamica della pellicola, in cui le interviste ai figli Isabella, Roberto e Ingrid Rossellini svelano tutto l’amore che la Bergman ha provato per i propri cari, nonostante un’esistenza nomade e senza radici, scandita da grandi cambiamenti e dolorose separazioni. E proprio gli affetti e la recitazione sembrano essere la vera costante del film, attraverso cui prendono forma immagini e ricordi, grazie anche al montaggio evocativo di Dominika Daubenbüchel e alla bella colonna sonora di Michael Nyman
Björkman gestisce bene l’alternanza dei piani temporali, intervallando in modo puntuale gli inserti storici, pur commettendo alcune ingenuità che turbano leggermente lo spettatore (come il cambio schizofrenico di lingua nelle interviste, anche da parte del medesimo personaggio). Il vero limite, però, è quello di cedere in alcune occasioni a una descrizione troppo celebrativa e acritica, che non approfondisce gli aspetti più amari e scomodi ma si limita a ridimensionarli comparandoli con la grandezza dell’alone mitico associato alla figura dell'attrice svedese. Curiosa è anche l’improvvisa accelerazione del documentario nelle fasi finali, in cui sono analizzati molto velocemente gli aspetti privati e lavorativi della protagonista poco prima della morte avvenuta nell’agosto del 1982: dall’ultimo problematico film con Ingmar Bergman (Sinfonia d'autunno) al nuovo amore per l’impresario teatrale svedese Lars Schmidt.

In riferimento alle critiche subite nel corso della sua burrascosa esistenza Ingrid Bergman disse: "Sono passata da santa a puttana e poi di nuovo santa, tutto nella stessa vita", e in effetti il documentario di Björkman racconta proprio questa travagliata esperienza in forma quasi agiografica, ma con l’affetto sincero e devoto che è giusto tributare a un’artista straordinaria e a una donna incredibilmente vitale e indipendente, emblema di un Cinema ormai irripetibile. D’altronde, oggi, quale attrice potrebbe affermare con sicurezza: “Non chiedo molto, voglio tutto”?


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3

  Vai alla scheda del film
  Trailer del film


Video

Simone Tricarico

Pensieri sparsi di un amante della Settima Arte, che si limita a constatare come il vero Cinema sia integrale riproduzione dell’irriproducibile.

Lascia un commento

Assicurati di inserire (*) le informazioni necessarie ove indicato.
Codice HTML non è permesso.

Questo sito utilizza cookie per il suo funzionamento. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. Se vuoi avere maggiori informazioni, leggi la Cookies policy.