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Joy - Recensione (London Film Festival 2018 - Official Competition)

Una donna intrappolata in un incubo circolare dove l'inizio si confonde con la fine: Sudabeh Mortezai realizza un film minimalista e reale che racconta il dramma della rete della tratta sessuale

La regista austro-iraniana Sudabeh Mortezai ha un passato di documentarista e presenta al Festival di Londra Joy, un’opera che è un ibrido tra documentario e fiction, un film difficile e duro e che con grande merito è nella Official Competition. Joy è apparso anche alla Mostra del Cinema di Venezia tra Le Giornate degli Autori ed è il secondo film non documentario della regista dopo Macondo, un simile veritiero racconto dei campi profughi ceceni.
La prima scena che ci si presenta davanti è quella di un rituale 'Juju' tradizionale. Capiremo più tardi l’importanza di questa cerimonia che inchioda al passato e alla superstizione le donne che vi si sottopongono. Un vecchio sciamano sgozza una gallina e sparge il suo sangue, poi fa giurare a Precious (Mariam Sanusi), una giovane ragazza, poco più di una bambina, di non avvertire mai la polizia e di ripagare il prestito che il vecchio sacerdote elargisce per 'aiutare' le ragazze ad andare in Europa, un’Europa vista come la terra delle opportunità e guadagni. Pregando si impossessa di parti del corpo della ragazza, unghie, capelli, e li racchiude in un cartoccetto che rimarrà attaccato al suo muro fin quando la ragazza e la sua famiglia avranno ripagato il debito.
Con un salto di tempo e di migliaia di chilometri da quella capanna, siamo in una strada periferica di Vienna, proprio in quell’Europa così agognata. Joy (Anwulika Alphonsus), con la sua divisa da lavoro, parrucca, lustrini e stivaletti si prostituisce. Si muove avanti e indietro aspettando le macchine fermarsi. Tra un cliente e l’altro tiene d’occhio la novizia che le è stata affidata. È Precious che imbronciata e riluttante non fa molto per invogliare i clienti. All’alba le due si infilano in vestiti comodi e come due operaie dopo il turno di notte tornano a casa a dormire.
La vita di Joy è complicata, ha una figlia piccola affidata ad una baby sitter permanente, vive in una casa comune con le altre ragazze del mestiere e tutti i soldi che guadagna di notte vanno subito via. Una gran fetta va alla orrida 'madame' che gestisce le ragazze e incassa gli introiti, una parte alla famiglia in Nigeria e un’ultima porzione a pagare la donna che si tiene cura della sua bambina. Joy ce l’ha quasi fatta, ha quasi ripagato il debito alla 'madame' e ora finalmente le si aprono delle prospettive, una tra le altre, quella di diventare una maitresse anche lei. Ma Joy in realtà vorrebbe aiutare la polizia a prendere 'madame' e il giro di protettori, forse anche perché spera di ottenere delle agevolazioni e i tanto agognati documenti e permesso di soggiorno. Quando l’organizzazione le chiede un ultimo favore di accompagnare Precious dal trafficante che la porterà in Italia, Joy non può dire di no.
A nulla serve il fatto che Joy e Precious siano personaggi di finzione. La tecnica documentaristica, l’uso di attrici non professioniste (alcune sono delle ex-prostitute) l’assenza di musica e di qualsiasi effetto rendono il film così minimalista e reale nella sua brutalità che la sensazione di coinvolgimento è totale. Eppure con grande sensibilità la regista ha evitato ogni sorta di violence-porn e di mostrare scene di brutalità verso i personaggi femminili, ottenendo un incredibile effetto pur lasciando dignità alle donne. Una scena di stupro mostrata solo sui volti delle altre ragazze che devono tacere per non peggiorare la situazione mi ha riempito gli occhi di lacrime nonostante l’assenza di immagini dirette. La storia di Joy è onesta e durissima. Ci mostra, senza compromessi, la brutalità di un sistema che risucchia le donne forzandole a diventare da abusate ad abusatrici, schiacciate dal loro debito e inchiodate con il ricatto della superstizione. La sua vicenda è quella di una donna intrappolata in un incubo circolare dove l'inizio si confonde con la fine, ma Joy va avanti, lei che non è a casa né in Nigeria né in Europa, attaccata all'unica cosa che le resta, quel piccolo frammento di famiglia e di appartenenza.
Oltre al nome della protagonista (si traduce Gioia), anche tutto il film è pervaso di un sarcasmo amarissimo. Una parete nella stanza delle ragazze è tappezzata di ritagli di riviste con foto di donne di colore di successo, tra le quali Michelle Obama e Lupita Nyong'o, modelli inutili per queste ragazze e irraggiungibili, mentre Precious sta attaccandone una di Beyoncé con una sua frase: “Il potere non ti viene dato, devi prendertelo”. Mai parole sono sembrate più ironicamente stupide.
La fotografia di Joy è circoscritta dal realismo dello stile, possiede una forza particolare nelle scene con poca luce (la maggioranza) dove i colori acidi parlano di un mondo senza gioia ma con un rigore quasi elegante.

Joy è un lavoro coraggioso e di difficile visione che sicuramente trova il suo posto nel giro dei festival, ma forse avrà qualche difficoltà nell’essere distribuito nelle sale. Sarebbe un peccato perché il film è una visione necessaria.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3.5

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Adriana Rosati

Segnata a vita da cinemini di parrocchia e dosi massicce di popcorn, oggi come da bambina, quando si spengono le luci in sala mi preparo a viaggiare.

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