Top of the Lake: China Girl - Seconda stagione: conclusioni
- Scritto da Adriana Rosati
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La BBC ha inaspettatamente anticipato l’uscita della seconda stagione della mini-serie Top of The Lake di Jane Campion, sottotitolata China Girl, che era prevista per settembre, e (in stile Netflix) ha inserito l’intera serie disponibile in streaming scatenando un'epidemia di binge watching nel Regno Unito. Ora che la serie si è conclusa vediamo se le buone premesse sono state seguite con coerenza.
Avevamo lasciato la detective Robin Griffin (Elisabeth Moss) alle prese con due misteri. Uno di origine penale e uno di origine personale. Due delicate questioni che hanno molto più in comune di quanto si possa immaginare. Il primo mistero è la valigia ritrovata sulla spiaggia di Bondi con un triste contenuto, il corpo senza vita di una ragazza asiatica, temporaneamente etichettata 'China Girl', (un soprannome che in inglese ha una valenza piuttosto razzista e ne accentua la spersonalizzazione). Robin presto scopre che la giovane ragazza era incinta di un bambino con cui non condivide il DNA e che probabilmente è stato impiantato solo per scopo di gestazione. La detective che ha una storia personale di maternità non portate a termine, è attratta dal caso in maniera ossessiva e ci si immerge con una foga ipnotica, quasi a stordirsi e dimenticare la solitudine in cui è piombata al suo rientro a Sydney. Il secondo mistero è sua figlia Mary (Alice Englert). Nata da uno stupro subito da Robin in gioventù e data in adozione immediatamente, Mary vive con i genitori adottivi, una coppia della medio-alta borghesia di Sydney, e Robin vuole incontrarla. Ma come reagirà la ragazza? A cosa porterà questo percorso? Cosa rappresenta Robin per Mary? E soprattutto, cosa vuol dire essere madre?
Elisabeth Moss affronta a testa bassa queste due linee narrative che si intersecano in vari punti: nei panni di Robin discende verso un finale ambivalente che si scosta dal classico thriller che le prime puntate avevano anticipato. Nel primo Top of the Lake la regista aveva esplorato gli abusi e la violenza di una società patriarcale e retrograda, sullo sfondo della natura neozelandese, immobile e indifferente nella sua maestà. Ora, in China Girl, il fuoco è decisamente sulla maternità e lo sfondo è una città che nella sua corsa frenetica in avanti ne ha frantumato il significato e l’essenza in una miriade di mutazioni. Madri-surrogato al servizio di madri disperate, madri mancate alla ricerca di figlie perdute, madri femministe alle prese con adolescenti post-femministe. L’altra faccia di questo universo femminile è una parata di personaggi maschili patetici, che virano dal viscido e manipolativo Puss (David Dencik), al fedifrago boss di Robin, ai blogger autori di una specie di tripadvisor di prostitute, per finire con il sottomesso padre adottivo di Mary. Non certo dei ritratti lusinghieri ma anch’essi pieni di forza, ben scritti e ben recitati.
Quello della regista Jane Campion è un punto di vista totalmente di parte: da ciò scaturisce un’energia e un’ironia decisamente originali che sono lo scheletro di China Girl ma che hanno già diviso il giudizio del pubblico e la critica. Nonostante le tematiche estremamente drammatiche, China Girl non manca di essere anche ironico e pungente e di regalare momenti da commedia classica. Controparte di Robin è l’agente Miranda (Gwendoline Christie) che, come previsto, assume sempre più importanza nella storia e nella vita di Robin. Miranda è un personaggio bizzarro e sopra le righe che fornisce uno sfogo comico al mondo travagliato e cupo di Robin formando una coppia caratterialmente e fisicamente contrastante, in puro stile Stanlio e Ollio. Anche Nicole Kidman nel ruolo della madre adottiva di Mary e la sua compagna psicologa, sono una fonte inesauribile di satira acuta e beffarda delle idiosincrasie e manie contemporanee della nuova middle class.
Le prime puntate avevano promesso un mystery-thriller tradizionale, ma in questo senso la promessa non è stata mantenuta alla lettera. Nonostante questo, la serie completa regala forse anche più di quello che anticipa, è complessa, sfaccettata e ricca di personaggi che creano un fitto mosaico di commento sociale. Ha una trama che ti tira dentro verso un cuore dark e offre un’esperienza molto coinvolgente. Jane Campion ha saputo adattarsi al formato televisivo-seriale senza compromessi e mantenendo l’esperienza dello spettatore puramente cinematografica.
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Adriana Rosati
Segnata a vita da cinemini di parrocchia e dosi massicce di popcorn, oggi come da bambina, quando si spengono le luci in sala mi preparo a viaggiare.