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Venezia 81: giorno 4. Cronache di cinema e molto altro

Un resoconto fatto di news, rumors, eventi, volti, chiacchiere, battute, dichiarazioni e ovviamente cinema per spiegarvi bene cosa significa vivere ogni giorno la 81a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Oggi parliamo di due film del Concorso e di una riflessione abbastanza macroscopica

La sensazione che provo, partecipando a questa Mostra del Cinema, è che il cinema ormai al Lido non sia più invitato. Non è nuova in me questa sensazione, e infatti è più una certezza. Da troppi anni ormai il cinema nei discorsi ufficiali che gravitano attorno alla Mostra e soprattutto in sala non è più presente; non si parla più di cinema inteso nel suo valore artistico, nel suo peso culturale, nella sua capacità di narrare il mondo, ma solo di ciò che compone il cinema ossia gli attori, i premi assegnati dall’Academy e la superficialità del film. E il cinema appunto? Il suo linguaggio? Le sue componenti artistiche, il montaggio, la capacità del regista di scegliere un punto di vista e renderlo universale? Fateci caso, nelle tantissime recensioni dei film che escono durante la Mostra, si parla solo di come ha recitato quell’attore, della filmografia del regista definita da frasi come «prima ha fatto» oppure «dopo il successo ottenuto con», dello svolgersi della storia, a discapito di un’analisi che prenda le mosse da un punto di osservazione. Non c’è tutto questo, perché molto spesso il film è così piatto che mette in crisi anche il più abile giornalista. Di contro ci sono le riviste di cinema web che invece si inerpicano su questioni filologiche e semiologiche in merito al film, quando invece non c’è al suo interno niente di tutto questo. Questa poca attenzione al valore artistico del cinema, trova la sua apoteosi nelle dirette dai red carpet e nelle conferenze stampa. Nelle prime, si parla ossessivamente degli attori, di come sono vestiti, di chi c’è, di cosa fa e poi quando prima di entrare in sala Marco Carzaniga rivolge loro le solite domande-contenitore: «Come ti sei preparato a questo film?» «Qual è stato il tuo approccio?». Sono gli stessi quesiti, tra l’altro, che i moderatori rivolgono sempre ad attori e registi nelle conferenze stampa ufficiali. Anche i giornalisti, italiani e internazionali, quei pochi che ormai seguono questi incontri, salvo poi presentarsi numerosissimi quando c’è il divo o la diva di turno dagli Stati Uniti, non vanno a fondo del film con domande che magari potrebbero incuriosire il pubblico che sta seguendo. Si rimane sulla superficie, sull’immagine del film. La prova di quanto sto dicendo, la trovate sul canale di RaiPlay dedicato alla Mostra in cui sono raccolte le conferenze stampa, le interviste, i red carpet. Guardate e ascoltate e poi ditemi se ho torto. 

L’ultima tessera che compone questo desolante mosaico sulla presenza reale del cinema alla Mostra, è la sempre presente retorica che i giornalisti ricordano su quanto questo festival sia utile per la corsa agli Oscar. Mi sembra di averlo detto più di una volta, ma è davvero così importante il premio dell’Academy? È così fondamentale sapere che quel film poi ha ottenuto un numero imprecisato di candidature o Oscar? Stando a quanto leggo sulle riviste di settore statunitensi ormai i premi Oscar interessano solo a noi europei, perché gli statunitensi gli conferiscono poca importanza. Anche qui fate una verifica: provate a sentire quanti giornalisti scrivono o dicono qualcosa in merito alla storia o alla tecnica del regista per film come Spotlight, Birdman, La forma dell’acqua, Roma, Nomadland? Vengono ricordati solo in base alle statuette vinte. A me tutto questo non sembra possibile. La colpa di chi è? Non voglio organizzare un plotone d’esecuzione, ma sentire da parte della direzione della Mostra e de La Biennale quanto siano importanti i red carpet affollati alla ricerca delle star, il chiacchiericcio del glamour sulla presentazione di quel determinato film e la folla che accorre a vedere i proprio idoli, trova facilmente i responsabili del perché non si parli di cinema alla Mostra del Cinema. La domanda quindi che mi faccio alla chiusura di questo mio sermone morale è: ma solo al Festival di Locarno o in merito ai film selezionati per le sezioni Forum o Panorama del Festival di Berlino si può parlare di cinema, inteso come la settima arte? Alla Mostra del Cinema e ancora meno al Festival di Cannes bisogna solo parlare del colore, degli aspetti più esteriori dei film e non del film stesso? Quando al Lido si tornerà a parlare della qualità del film? Mi sembrano domande così legittime eppure non vedo che la stampa italiana e internazionale sia cartacea che web se le pongano. I dubbi rimangono.

E il cinema? Eccolo! Ma passiamo al cinema, appunto. Oggi vi parlo di due film del concorso: Three Friends (Trois Amies) di Emmanuel Mouret e The Order di Justine Kurzel. Il primo è una commedia drammatica ambientata a Lione oggi che ruota attorno a tre amiche, Joan, Alice e Rebecca, le prime due sposate, la terza, pittrice single, è invece l’amante di Eric, il marito di Alice. Le loro vite si intersecano in confronti, dialoghi, bugie velate di verità, perché tutte e tre le donne sono insoddisfatte sentimentalmente, a tal punto da non amare più i loro rispettivi partner. Le tre protagoniste cercano l’amore, sono alla ricerca del sentimento, delle palpitazioni del cuore, ma non come delle adolescenti in preda alla farfalle nello stomaco, ma come donne consapevoli che l’amore può e deve essere un obiettivo di vita. Ecco quindi che in dialoghi lunghissimi, molto verbosi, ma davvero molti, girati in piani sequenza, fughe d’amore, incontri fugaci, dichiarazioni dolorose e colpi al cuore, si consuma il destino amoroso di Alice, Joan e Rebecca. Trois Amies è, quindi, una commedia dei sentimenti come Mouret sa fare. È un film delicato, equilibrato, che si lascia guardare, capace di far ridere e di far sentire il dolore in particolare quando un evento drammatico sconvolge la vita di Joan. Sicuramente il regista ha appreso con grande rigore il cinema di Eric Rohmer e quello di Woody Allen, rintracciabile anche nella goffaggine dei personaggi maschili, riuscendo però a conferire al suo cinema e in particolare a questo film, un taglio elegante e sentimentalmente cinico sul tema dell’amore. Sì c’è parecchio cinismo nella storia di Mouret perché seppur le cose vengano dette spesso con le lacrime agli occhi causate dalla tristezza, nessuno dei protagonisti risparmia frecciate e colpi bassi agli altri, aggiungendo anche la frase:«in fondo lo fai pure tu!». Grande lode alle tre attrici protagoniste, India Hair, Camille Cottin e Sara Forestier per aver interpretato le sfumature emotive e intellettuali delle donne protagoniste in crisi d’amore. 

The Order di Kurzel, invece, è una storia tipicamente statunitense girata con uno stile decisamente statunitense. Per capirci, non mi è dispiaciuto, anche se è parecchio prevedibile. La storia si svolge negli Stati Uniti nei primi anni Ottanta. Un gruppo estremista di suprematisti bianchi, che si fa chiamare The Order, fuoriusciti da una comunità filo nazista gestita da un reverendo estremista, opera la sua azione nella società, rapinando portavalori e banche, mettendo bombe nei cinema a luci rosse e uccidendo quelli che loro reputano nemici, nella fattispecie del film, uno speaker radiofonico che li accusa di essere antisemiti. Al termine di questo percorso nella loro visione distorta c’è l’evento finale, il grande gesto che li porterà alla gloria definitiva. Sulle loro tracce si pone un detective dell’FBI, Terry Husk, interpretato da Jude Law, e un poliziotto, Jaime Bowen, che lavora nella contea, interpretato da Tye Sheridan. Il primo è il classico detective dal passato oscuro, separato dalla famiglia, che mastica avidamente il suo rancore, tanto quanto fuma e beve. Il secondo è il bravo poliziotto per antonomasia, persecutore della giustizia, padre di famiglia che farà la fine che state già pensando. Non posso nascondere che Kurzel è bravo nel girare gli inseguimenti, nel dare un ritmo accelerato al film in corrispondenza delle scene delle azioni criminali del gruppo, per poi bilanciare il tutto con i pensieri intimi dei personaggi, con i loro sfoghi emotivi e introspettivi. La tensione è bella alta e il regista, dunque, la costruisce con sapienza in un climax ascendente di scene in cui la musica si alza e diviene più ritmata, il montaggio è più serrato, e soprattutto si impenna la frenesia di Husk che sente l’odore dell’antagonista. Sapete qual è il segno più empirico per capire che il regista ha costruito bene la tensione? La scena di tensione solitamente è seguita da una scena calma in cui la musica scompare, il sonoro si spegne, non si sentono più le urla dei protagonisti e la macchina da presa non corre più da un personaggio all’altro. Esattamente nel momento del passaggio tra queste scene, potete notare come voi stessi o chiunque sia vicino a voi, in sala o in casa, muova il corpo, la testa come per sbloccarla o tiri un sospiro, perché liberato dell’adrenalina della scena precedente. Ecco, questo fenomeno l’ho visto più di una volta accadere durante la proiezione in sala di The Order. Comunque a parte questo, il film di Kurzel è un buon film, anche se ripeto, è davvero tanto prevedibile. Il finale è scontatissimo, chi morirà o vivrà si sa molto tempo prima. E poi il regista si è dimenticato di dare più spessore alla vicenda personale del detective dell’FBI che rimane solo accennata, crea una suggestione in chi guarda, per poi perdersi. Per questo il personaggio rimane indefinito, come se gli mancasse un pezzo del suo status di vita. Guardate The Order, ma non aspettatevi nulla di innovativo. Rimane il dato storico ossia dove la follia di Capitol Hill del gennaio 2021 abbia trovato il suo fondamento storico e reale, come affermano le scritte nel film prima dei titoli di coda. 

Altro ancora (più brevemente)

  • Nel programma delle Giornate degli Autori era stato selezionato un film georgiano The Antique (Antikvariati) diretto dalla regista Rusudan Glurjidze. Pare che la proiezione, in programma ieri, non sia avvenuta a causa di un decreto del Tribunale di Venezia sulla base di una contestazione mossa dai produttori di minoranza (tra cui la russa Viva Film) riguardante il copyright sulla sceneggiatura. «Ci è stato vietato di raccontare la nostra storia» così ha detto la regista in una sua lettura politica della vicenda senza entrare nei dettagli tecnico-legali. Poi ha lanciato un appello ai giornalisti: «Per favore, fate del vostro meglio per sensibilizzare la comunità del cinema e fare in modo che la proiezione (quella del 6 settembre ndr) abbia luogo. Sono nel cuore dell’Europa e sono stata censurata. Questo dopo Venezia, può diventare un film fantasma. Abbiamo il diritto di metterci la faccia». All’appello si è unito anche il presidente delle Giornate Francesco Ranieri Martinotti e il Delegato generale Giorgio Gosetti. Il film narra di alcune espulsioni di massa di georgiani dalla Russia nel 2006. 
  • Altra notizia proveniente dalle Giornate. Oggi alle 18 in Sala Laguna è apparsa Patti Smith in occasione della sua masterclass affiancata da Stephan Crasneanscki del Soundwalk Collective. Smith e Crasneanscki si sono confrontati con il pubblico sul processo creativo da cui ha preso forma il loro progetto Correspondances composto di brani che sono viaggi audiovisivi su cinema e poesia. Le loro fonti di ispirazione sono stati Tarkovskij e Pasolini. Per celebrare i due attori le GdA hanno proposto nel loro programma Andrej Rublëv e Medea. 
  • Devo ancora andare a vedere la Match Point Arena posta di fronte all’Hotel Excelsior in cui si svolgono ogni giorno delle masterclass, che forse sono più incontri con il pubblico. Oggi è toccato a Nicola Piovani, Cristina Comencini e Claude Lelouch. Nei prossimi giorni se riesco a passare magari faccio qualche foto. 

Per oggi è tutto. Domani, quinto giorno, si conclude il primo fine settimana con la presentazione di The Brutalist di Brady Corbet, I’m not Here di Walter Salles e poi arrivano Brad Pitt e George Clooney!

Crediti fotografici

Foto1 PHOTOCALL - TROIS AMIES - Film Delegation (3) Credits Giorgio Zucchiatti La Biennale di Venezia - Foto ASAC

Foto 2 PHOTOCALL - CLOUD - regista Kurosawa_Kiyoshi, Credits: Giorgio Zucchiatti La Biennale di Venezia - Foto ASAC

Foto 3 Actor Jude Law, Credits Michelle Faye (1)

Foto 4 TROIS AMIES - THREE FRIENDS - Camille Cottin, India Hair, Sara Forestier

Foto 5 PHOTOCALL - TROIS AMIES - Actress Sara Forestier(3) - Credits Giorgio Zucchiatti La Biennale di Venezia - Foto ASAC


 
Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

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