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Venezia 81: le amarissime riflessioni finali

Sono stati necessari parecchi giorni di riflessione, prima di trovare una risposta alla domanda «Come è stata Venezia 81?». Considerando le riflessioni che leggerete, era meglio se questa domanda non me la ponevo

Non è certamente la prima volta che scrivo e dico questa cosa, ma sono costretto a ripetermi. La 81a Mostra del Cinema mi ha annoiato. Forse ho iniziato il mio articolo conclusivo alla 80a Mostra del Cinema proprio nello stesso modo, con le stesse parole, ma credetemi, non è colpa mia. Non è colpa mia se mi annoio al Lido; non sono io che esco dalle sale chiedendomi che cosa abbia appena visto o perché il film che si è appena concluso sia stato inserito nella Selezione ufficiale o ancor peggio nel Concorso; non dipende da me se ciò che vedo sugli schermi della Sala Grande, della Sala Darsena e del Palabiennale sono storie piatte, retoriche, senza spirito né anima, né tantomeno cinema. Devo dire, però, che proprio grazie alla Mostra del Cinema i miei occhi si sono abituati ad affinare sempre di più la visione del cinema. Le sue proposte soprattutto agli inizi del Duemila mi hanno molto abituato a vedere un cinema che si interrogava sul presente e sul mondo con un linguaggio nuovo. Questa carica di innovazione, poi, nel corso degli anni, dei decenni, si è persa, fino ad arrivare al nulla quasi totale di questa 81a Mostra del Cinema. Quindi grazie alla Mostra sono diventato molto critico nei confronti della Mostra. Questo interessante paradosso, in realtà, è la mia condanna che può portarmi a interrogarmi sul futuro. Non credo che La Biennale piangerà lacrime infinite se non vedrà la mia richiesta di accredito per la 82a Mostra del Cinema, piuttosto sarà dispiaciuta nel non vedere il pagamento di 70€ della tessera dell’accredito. A queste condizioni, con questo cinema con questa proposta sbilanciata, senza una linea di analisi del concorso che assomiglia più a un concorso a premi, che senso ha partecipare alla kermesse di cinema del Lido?

Mi giudicherete troppo critico e troppo tranchant, me ne rendo conto, ma cercate di capire le mie motivazioni. Lascio stare i confronti con le edizioni della Mostra di almeno dieci anni fa, per quanto lo ammetto senza remore: preferivo di gran lunga le selezioni, l’idea di festival, il concetto di cinema proposto quando Marco Müller era il direttore. Comunque, appunto, fare i confronti è riduttivo, anche perché nella contemporaneità un anno è diversissimo dall’altro. Mi attesto, quindi, sul presente. Venezia 81 è stato un concorso noioso e sfido davvero chiunque a dire il contrario. Le domande che mi pongo (e che vi pongo) sono sempre quelle: quali innovazioni cinematografiche ci sono state? Quali approfondimenti sul presente sono emersi? Quale cinema mi rimane nella mente? Non sono domande banali, perché i festival non sono solo lustrini, ma momenti di approfondimento sullo stato dell’arte. Si può essere critici nei confronti della Biennale d’arte, di Documenta a Kassel, del Festival Internazionale di teatro, o di qualsiasi altra manifestazione artistica internazionale, ma dei festival cinematografici no? Bisogna necessariamente trattarli come un raccolto di puro intrattenimento, senza riuscire a valutarli in un altro modo?

Venezia 81 è stata noiosa, quindi. Nel Concorso, quindi, ci sono stati i film retorici, già visti come The Room Next Door, The Order o Campo di battaglia. Ci sono stati i film che hanno lasciato un piccolo seme di pensiero e fascinazione come The Brutalist, Vermiglio, I’m Still Here, El Jockey, Love, Iddu (Sicilian letters), Queer, Trois Amies, Jouer avec le feu che però rimangano film piccoli, a volte inespressi, attaccati flebilmente a una idea. Ci sono stati, infine, i film da dimenticare come Diva Futura, Babygirl, Joker: Folie à deux, Leurs enfants aprés eux. E poi ci sono stati tre film che hanno confermato l’idea che si può fare cinema diversamente: Youth (Homecoming), April e Stranger Eyes. Non considero i film davvero pessimi perché non dovevano neanche approdare al Lido e ciò non dipende certo dal regista, ma dalle produzioni e dagli accordi presi con la direzione della Mostra. Se tenete, quindi, in considerazione le pellicole del primo gruppo e quelle di media espressione del secondo si sommano undici titoli, la metà del concorso. Da questo naufragio davvero si salvano solo tre opere e non credo di essere l’unico a pensarlo. Se ben oltre i due terzi del concorso è stato composto da film che non hanno convinto, la pazienza di chiunque può essere messa alla prova. Nelle Cronache dal Lido ho scritto come I’m Still Here, Vermiglio, anche Trois Amies, The Brutalist appaiono accettabili, si fanno guardare, ma si ergono su un presupposto debolissimo. C’è una minuscola idea di cinema che li tiene in vita e questo, a mio parere, è inaccettabile. Nel Concorso della Mostra del Cinema si dovrebbe vedere l’innovazione, non la banalità. Perché negli altri Festival, Locarno, Berlino, in piccolissima parte anche Cannes, senza considerare il Karlovy Vary, San Sebastian, si può vedere un po’ di cinema nuovo e, invece, alla Mostra mi devo sorbire dei film piatti con storie patinate e che forse e in alcuni casi remoti, possono lasciare in chi guarda qualche spiraglio di riflessione?

Come detto, però qualcosa di buono l’ho visto e solo di questo voglio parlarvi. Wang Bing il più grande documentarista cinese» come l’ha definito il direttore Barbera senza considerare che la sesta generazione di registi cinesi, di cui Bing fa parte, annovera tra i documentaristi di fama internazionale solo lui e Zhao Liang, quindi la sua definizione appare alquanto infondata) ha impressionato il pubblico con il suo documentario Youth (Homecoming), una storia giovanile di speranze spezzate e di tristi realtà. Il terzo capitolo di questa trilogia che ha coinvolto il regista e il suo produttore per più di cinque anni, è un colpo basso al nostro presente, alla grande voglia di apparire e di mostrare di oggi, perché pone sullo schermo una gioventù che solo nel documentario di Bing può trovare la sua affermazione. Questi ragazzi cinesi dai 16 ai 30 anni, infatti, che lavorano in laboratori tessili sommersi dalla sporcizia e in case senza neanche il pavimento, sono la colonna invisibile di quel capitalismo su cui l’Occidente di fonda. Il regista li inquadra con il suo stile che sta divenendo sempre più grezzo, meno scolastico rispetto ai primi lavori. Non pensa più all’inquadratura, ma a riprendere, a mostrare, a far vedere come quel vestito che noi compriamo a pochissimi soldi su Shein è così a buon mercato perché è realizzato da ragazzi senza futuro, sfruttati e umiliati. Per questo il regista corre dietro i protagonisti, si palesa nelle ombre, fa sentire la sua voce e lascia nel montato gli sguardi in macchina dei giovani, perché è intento a proporli nel modo più autentico possibile. Il suo stile di ripresa è, come detto, sempre più tagliente e le sue immagini sono come le parole dei maggiori narratori della realtà ossia si incidono nella mente. La potenza visiva di Wang Bing ha pochi emuli nel cinema di oggi e questa è una definizione ben più calzate rispetto a quella del direttore Barbera. 

Poi c’è Stranger Eyes di Siew Hua Yeo. Un film che nella palese denuncia dello stato di assedio visivo di oggi, dettato da riprese rubate con ogni mezzo tecnologico oltre che con le videocamere di sicurezza, gioca con il cinema filmando un thriller dal finale davvero insperato. Almeno il regista di Singapore ci prova a fare qualcosa di nuovo. È alla sua opera seconda, ma ha già le idee chiare su come piegare il cinema alle sue idee. Questo accade perché Stranger Eyes nasce da un’idea, da un concetto. Sembra un storia drammatica famigliare che in realtà si trasforma in un giallo voyeristico, con sfumature di denuncia sociale, per tornare alla storia personale. E tutto ciò è filmato con una semplicità e naturalezza che dimostrano la maturità artistica di Siew Hua Yeo. Un secondo capitolo di valore, dunque, per il regista di Singapore, come quello di Dea Kulumbegashvili. 

April è stata la vera primizia, anzi non la vera, la sola primizia di Venezia 81. C’è tutto in questo film. C’è la storia di una donna che si scontra con la realtà; c’è la volontà di mostrare l’esistenza in Georgia, stato molto lontano dal nostro dorato Occidente, stando a quanto fa vedere la regista, per essere affine per la vita precaria che esprime, a tanti altri Paesi nel mondo. Poi in April c’è una traccia di linguaggio cinematografico. Kulumbegashvili porta lo sguardo dello spettatore a vedere ciò che è necessario. Muove la macchina, monta le immagini in maniera simbolica, lascia il sonoro della natura e inquadra nel dettaglio il volto della sua attrice, Ia Sukhitashvili, perché è lì, in quegli occhi, naso, bocca, guance, mento, che si condensa il valore del film. April è un film davvero completo che anche quando mostra con un realismo palpante, non sconvolge, ma definisce, mette un punto. 

Insomma, tre film, e poi? Poco, davvero poco. Tant’è che la Mostra del Cinema 2024 sarà ricordata per il delirante Baby Babylon di Harmony Korine e per il gioiellino di Takeshi Kitano, Broken Rage, che nonostante lui stesso non ci creda, mostra la capacità autoriale di fare cinema con pochi segni e mezzi: 64 minuiti di puro cinema. E dove sono stati inseriti questi film? Nel Fuori concorso. Esattamente come l’anno scorso quando alla Mostra del Cinema 2023 il film che ha raccolto maggior consenso è stato Hit Man di Richard Linklater, anch’esso inserito nel Fuori Concorso, la 81a Mostra sarà ricordata per due film non del Concorso. Credo che questa riflessione debba farla anche il direttore Barbera e il suo (stanco, appiattito e poco brillante) comitato di selezione o come sono da lui definiti “esperti di settore”. Aggiungo a questi pochi segnali di speranza cinematografica che la sottile linea di analisi che si è sviluppata tra i film del Concorso di Venezia 81, messa da me in evidenza nelle mie Cronache dal Lido, riguardante il confronto tra presente e passato, si è quasi frantumata nel prosieguo della Mostra, per l’evidente eterogeneità dei film selezionati. Giungo così, al palmares. Sono stati premiati film bolliti. Il Leone d’oro è andato a The Room Next Door di Pedro Almodóvar la cui idea di cinema è consolidata da decenni. Non critico il cinema del regista spagnolo perché è un autore che esprime la sua poetica. Non mi spiego perché Alberto Barbera e La Biennale gli abbiano conferito nel 2019 il Leone d’oro alla carriera, come consacrazione del suo cinema, per poi inserire il suo film in Concorso e non nel Fuori Concorso, sua collocazione naturale. Che senso ha avuto quel premio alla carriera, come del resto questo Leone d’oro? Alcun senso, se non a creare una ridondanza e a consacrare due volte il cinema del regista spagnolo. Cosa assai curiosa, se ci pensate. In merito alla lista dei premiati potrei fare molte osservazioni, perché come sempre sono stati riconosciuti premi incomprensibili. Vogliamo parlare dei premi agli attori? L’interpretazione di Vincent Lindon è stata forse meglio di quella di tanti altri attori maschili nel Concorso? Senza andare nel dettaglio, posso dire che se la meritava di gran lunga di più Joaquim Phoenix per il secondo capitolo di Joker, per immedesimazione e resa del personaggio, nonostante non sia la sua migliore interpretazione. Nicole Kidman poi premiata con la Coppa Volpi per la Miglior interpretazione femminile, forse ha mostrato la peggiore interpretazione della sua carriera, eppure secondo la giuria è stata migliore di Fernanda Torres in I’m Still Here (comunque mi permetto una piccola osservazione su questo sistema di premiazione degli attori. Dividere ancora oggi nel 2024 tra maschile e femmine è inopportuno. È necessario adottare, come fa il Festival di Locarno, due premi alle migliori interpretazioni senza specificare la differenza di sesso, perché è davvero anacronistica. Questo discorso riguarda la Mostra del Cinema come anche il Festival di Cannes). E poi il Gran Premio alla Giuria a quella piccola favola di Vermiglio di Maura Delpero. Anche qui il problema non è della regista che fa il suo onesto e personale cinema, ma è di chi (e davvero devo capirlo) c’ha visto una grande espressione artistica. È un premio troppo grosso per una piccola espressione cinematografica. 

Basta concludo. Come sapete se avete letto le mie Cronache dal Lido, prima ancora i miei Diari e se ascoltate il podcast La Luce del Cinema, io, come tutta la redazione di LinkinMovies.it, voglio bene alla Mostra del Cinema, ma così com’è non è più un festival. Nei suoi dodici lunghi anni di gestione, il direttore Barbera ha proposto selezioni ricche solo di grandi titoli, di cinema statunitense/francese/italiano (salvo poi dire che il cinema nostrano è sovraprodotto e di dubbia qualità); ha alimentato il grande mito proposto dai giornali, secondo cui la Mostra è un trampolino di lancio promozionale per gli Academy Awards; ha svuotato, così, di valore artistico questa manifestazione. Prima dei premi di Hollywood, prima del Festival di Cannes, prima di ogni festival di cinema al mondo, c’è sempre stata la Mostra del Cinema e il suo blasone. Ora le produzione e i registi, soprattutto dall’emisfero atlantico, invece vengono al Lido per passare dieci giorni in riva al mare. Il Lido e la Mostra sono un contenitore in cui bisogna mostrare, far vedere le paillettes, i vestiti più audaci, gettarsi in pasto ai fotografi e fare il pagellino dei red carpet (e di questo ringrazio molto i giornali italiani e la loro totale mancanza di idee che li spinge non a parlare del cinema, ma di questi aspetti). E il motivo per cui la Mostra è arrivata a esprimere tutto questo, da amante della settima arte, risiede nelle scelte del direttore Alberto Barbera che ha sbilanciato la proposta della Mostra verso l’intrattenimento, cacciando via quasi completamente il cinema d’autore. Ormai il suo schema di selezione è chiaro, non bisogna aspettarsi nulla. Venezia 81 era nata sotto la stella dell’autore, ma davvero è stato un abbaglio incredibile. Venezia 81 è stata come Venezia 80 e come tutte le altre da dodici anni a questa parte: puro cinema di passatempo. Chi cerca una manifestazione così non serve che venga al Lido, ma può restare a guardare la proposte delle sale.

Cosa fare, quindi? Bisogna che innanzitutto anche gli addetti alla stampa tornino a parlare del cinema proposto alla Mostra e non solo parlare del glamour, e della facciata. Bisogna che la direzione della Mostra inverta la rotta e il suo sguardo. Purtroppo, ahinoi, almeno questo non accadrà per l’anno prossimo, salvo imprevisti, quindi a luglio 2025 dovrò fare le mie valutazioni se sorbirmi un’altra Mostra del Cinema così costruita, o rinunciare nella speranza (utopica) che qualcuno si renda conto di come è diventata. 

Crediti fotografici

Foto 1 RED CARPET-THE ROOM NEXT DOOR - Director Pedro Almodóvar-Credits Giorgio Zucchiatti La Biennale di Venezia - Foto ASAC  

Foto 2 PRE-OPENING - Presidente Pietrangelo Buttafuoco Credits Giorgio Zucchiatti La Biennale di Venezia - Foto ASAC

Foto 3 JOUER AVEC LE FEU - THE QUIET SON - Attore Vincent Lindon - Credits 2024 Felicita - Curiosa Films - France 3 Cinema 1

Foto 4 PHOTOCALL - QING CHUN GUI - YOUTH (HOMECOMING) - Regista Wang Bing - Credits G. Zucchiatti La Biennale di Venezia-Foto ASAC 2

Foto 5 PHOTOCALL - STRANGER EYES - Regista Yeo Siew Hua - Credits A. Kalka La Biennale di Venezia-Foto ASAC

Foto 6 PHOTOCALL - APRIL - Film Delegation - Credits Giorgio Zucchiatti La Biennale di Venezia - Foto ASAC 2

Foto 7 PHOTOCALL - BROKEN RAGE - Director Takeshi Kitano - Credits G. Zucchiatti La Biennale di Venezia-Foto ASAC 2

Foto 8 ARRIVI - Direttore Alberto Barbera - Credits Giorgio Zucchiatti La Biennale di Venezia - Foto ASAC 5

Foto 9 CERIMONIA DI PREMIAZIONE - PREMIO CAMPARI - Direttore Alberto Barbera - Credits Jacopo Salvi La Biennale di Venezia - Foto ASAC 1 



Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

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