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Una famiglia - Recensione

La vita di una coppia chiusa perennemente in casa. L'opera seconda di Sebastiano Riso è questo e null'altro. Il dramma della donna, madre a contratto per affidamenti clandestini, è forse uno dei temi della pellicola, ma lo scopo del film qual è? 

Maria e Vincenzo abitano a Roma. Lui è di origine francese, lei è italiana e molto più giovane di lui. La loro vita si svolge in casa, soprattutto quella della donna e se escono si limitano ad andare dal ginecologo o a cena sempre nello stesso ristorante. I due, in compenso, fanno spesso l'amore nella speranza che lei rimanga incinta. Un giorno arriva a casa loro una donna che informa Vincenzo che il bambino da loro concepito e dato a un'altra coppia è morto dopo appena dieci mesi. La donna aggiunge, inoltre, che i coniugi a cui sarà venduto il prossimo nascituro di Maria Vincenzo si sono defilati. L'uomo si arrabbia e non si fida più della donna e dei clienti da lei forniti e quindi si rivolge al ginecologo per trovare una nuova famiglia. La scelta ricade su una coppia di attori omosessuali e così Maria può proseguire la sua gravidanza. Nel corso dei nove mesi, però, qualcosa in Vincenzo cambia e sente che non può più contare sulla sua compagna, perché sempre più insistentemente gli chiede di tenere duro per loro la prossima nascita. Mentre Vincenzo trova facilmente un'altra ragazza con cui sostituire la sua compagna, la gravidanza ha termine, ma al momento della consegna del bambino alla coppia designata, qualcosa non va come dovrebbe. 
Sebastiano Riso con Più buio di mezzanotte aveva dimostrato una buona capacità nel dirigere, seppur la pellicola si caratterizzava più per la spettacolarità della vicenda che per l'indagine approfondita del trauma di vita del ragazzino adolescente protagonista. In Una famiglia, sua opera seconda, tale osservazione si fortifica e si conferma. Questo film racconta del destino di essere una madre in prestito della protagonista Maria (Micaela Ramazzotti), la quale nutre il desiderio di avere una famiglia propria. Su di lei, però, lo spettatore, durante lo svolgimento del film, acquisisce ben poche informazioni, utili a comprendere il suo stato ed essere. Non si conosce la sua famiglia, quale eventuali drammi può aver subito, quale percorso di esistenza l'ha segnata e come sia finita nelle mani di Vincenzo (Patrick Bruel). Questo aspetto può essere irrilevante solamente se il personaggio delineato fornisce un'enorme profondità nel suo essere drammatico, se riesce, quindi, con le crisi di animo ad agganciare lo spettatore, fornendo una sfumatura di complessità realmente umana. Così facendo chi osserva costruisce naturalmente un ponte empatico e, se la storia lo richiede, cerca nella propria mente una via di fuga per la donna. Riso, in collaborazione con gli altri sceneggiatori, Andrea Cedrola e Stefano Grasso, al contrario chiude il volto della Ramazzotti in un'unica espressione di forzata commozione rigida, retorica, monocorde e senza alcuna possibilità di manifestare un viaggio di scavo addentro al suo animo. Maria è quindi relegata ad essere un piatto pianto senza prospettive. Vuole scappare da Vincenzo? Vuoi restare, perché lo ama? Ma lo ama sul serio e in che modo lo dimostra? Questi interrogativi cadono nel vuoto. La donna appare fragile solo perché appunto perennemente triste e immersa in un maglione di lana utilizzato come una coperta. Troppo poco per parlare di insicurezza di vita. Come se non bastasse la drammaticità del mercato clandestino delle adozioni, che dovrebbe essere il tema del film, appare quasi come un pretesto, per cercare di conferire una breccia di storia al personaggio di Maria, come a quello di Vincenzo o Stella (Matilda De Angelis) ragazzina tossica 'ultima scoperta' dell'uomo. Il contesto, infine, non ha alcuna funzione. Si percepisce possa essere la periferia romana, ma Riso non fornisce gli elementi per comprendere quali criticità di vita possa comunicare all'esistenza dei protagonisti questo determinato luogo. Un viale polevoroso, il degrado delle strade, l'immondizia abbandonata non sono elementi sufficienti a definire questo contorno.

In verità sembra che l'unico obiettivo del regista sia premere forzatamente e insistentemente sul pulsante del tragico, senza spiegare perché abbia scelto questa strada. Per far emergere ciò Riso avrebbe almeno dovuto realmente attaccare la macchina da presa al volto dell'attrice e lasciare che comunicasse in maniera naturale i suo stati d'animo. La macchina, invece, è distante, è lontana da lei se non fosse per un piccolissimo primissimo piano delle sue unghie, conferendo così più distacco che volontà di cercare un punto di vista adeguato a trasmettere quello che dovrebbe essere lo scopo del film. Si attende, pertanto, la terza opera alla regia di Sebastiano Riso per cercarne di capire il potenziale talento.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 1

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Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

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