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C'era una volta a... Hollywood - Recensione

La nostalgia per la Hollywood che non c’è più, tra l’omicidio di Sharon Tate e il declino delle star del piccolo schermo degli Anni ’50-60: un Quentin Tarantino ai minimi termini di estro fa rivivere umori, colori e sonorità di un’epoca al suo crepuscolo. Tanto metacinema in mezzo a una sensazione di vacuità generale che si attenua solo in uno strepitoso epilogo

C’era una volta… Quentin Tarantino. Un regista espressione massima del postmoderno che prendeva il cinema e lo rivoltava come un calzino, film dopo film. Oggi quel Quentin Tarantino che abbiamo tanto amato e ammirato, non c’è – quasi – più. Dopo Grindhouse – A prova di morte, l’incantesimo si è spezzato. Se escludiamo il magnifico The Hateful Eight (ultimo canto del cigno di un postmodernismo con cui il regista recuperava lo smalto degli inizi della sua carriera), da Bastardi senza gloria in poi abbiamo assistito a una progressiva metamorfosi del regista. L’amore per il cinema di Tarantino si è tramutato in pura ucronia: ovvero il cinema come sogno, come veicolo di scrittura di una Storia ‘alternativa’ con cui sovvertire quella ‘ufficiale’, prima con la sconfitta del nazismo in Bastardi senza gloria, poi con il riscatto dalla schiavitù in Django Unchained. E ora con C’era una volta a… Hollywood, un malinconico affresco di un turning point dell’industria hollywoodiana sul finire degli anni Sessanta, il film più fragile e meno ispirato tra quelli diretti da Tarantino con l’ambizione di sostituire alla Storia un immaginario cinematografico.
Storia che qui assume i connotati di un noto fatto di cronaca, il caso Sharon Tate, l’assassinio brutale della giovane attrice, moglie di Roman Polanski, insieme ad altre quattro persone, avvenuto il 9 agosto 1969 in una villa a Los Angeles, per mano di un gruppo di seguaci di una setta guidata da Charles Manson. Attorno al terribile evento, ancora fresco nella memoria di molti, Tarantino costruisce le traiettorie narrative del suo film, seguendo le vicissitudini quotidiane di tre testimoni di un momento di transizione in cui l’influsso anti-autoritario della cultura hippy stava cambiando radicalmente Hollywood. Oltre a Sharon Tate, immortalata in una vita spensierata al fianco di Polanski, sullo schermo prendono vita due personaggi immaginari, vicini di casa della donna: Rick Dalton, un attore che sta vedendo svanire il suo sogno di diventare una star di prima grandezza dopo essersi guadagnato la notorietà con alcune serie televisive di successo, e Cliff Booth, stuntman e controfigura personale di Dalton nonché suo amico fraterno, anche lui desideroso di affermarsi nel mondo del cinema che conta ma con scarsi risultati.
C’era una volta a… Hollywood è concepito come un minuzioso percorso di avvicinamento al quel fatidico 9 agosto 1969, punto di congiunzione che intreccia e risolve le storie personali dei tre protagonisti e ultimo tassello del film prima dei titoli di coda con un finale pirotecnico (meglio non anticiparvi nulla) che immagina una sorte forse diversa per Sharon Tate. Sappiamo che in fase di lavorazione Tarantino aveva concepito prima di tutto la centralità dell’azione omicida nel finale e che da lì è partito per costruire poi il resto. Probabilmente le idee erano poche, perché tutto quello che accade prima dello strepitoso finale è purtroppo una esibizione metacinematografica sterile e vacua. Tarantino fa infatti incetta di nostalgia per la Hollywood degli Anni ’50 e ’60, affastellando umori, colori e sonorità di un’epoca al suo crepuscolo, in una sorta di dietro le quinte carico di compassione sulla vita di quelle star in declino del piccolo schermo che la Nuova Hollywood avrebbe poi snobbato (del resto nei film precedenti del regista non sono mai mancati i rimandi, vedi David Carradine, solo per citare il primo nome che ci viene in mente), fino al cortocircuito finale, dove la fabbrica dei sogni per eccellenza (Hollywood) fa i conti con la realtà alle sue porte (la radicalizzazione della cultura hippy con l’ascesa criminale della Manson family), perdendo per sempre il suo incanto. Un’immersione in un mondo perduto che difetta di scrittura ed estro visivo, se escludiamo il finale: pretestuosa la presenza di Sharon Tate che sembra totalmente avulsa dal fulcro narrativo, scarsamente empatici i due protagonisti maschili (hanno il volto dei pur bravi Leonardo DiCaprio e Brad Pitt) che vediamo impegnati in sequenze dilatate spesso fino allo sfinimento, fiacca la regia a cui non basta l’uso della pellicola anziché del digitale per dare autenticità a situazioni ad uso e consumo dei cinefili nostalgici.

C’era una volta a… Hollywood appare quindi come un film imprigionato nella sua natura metacinematografica: Tarantino parte da un’intuizione interessante (rivisitare l’omicidio Tate incrociandolo con il clima di cambiamento in atto nella Hollywood degli anni d'oro), ma la traduce per immagini perdendo per strada la sua specificità cinematografia: il gusto per i dialoghi ficcanti, paradossali, intrisi di straordinaria ironia, e la capacità da cinemaniaco di (ri)mescolare generi e stili.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 2

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1 commento

  • Marco Gennari
    Marco Gennari Martedì, 23 Febbraio 2021 01:52 Link al commento Rapporto

    Pur nel rispetto della libera espressione del giudizio personale di ciascuno nel recensire , mi permetto di dissentire categoricamente da questa recensione , in quanto reputo quest'opera la più matura e acuta di Tarantino. Quasi eguagliata soltanto da The Hateful Eight, e di pari valore artistico con quel capolavoro di innovazione narrativa che fu Pulp Fiction. Anche qui, come allora, Tarantino sperimenta e disorienta destrutturando la narrazione convenzionale ed opta per un registro stilistico che è dichiaratamente lontano dal pulp, fin dal titolo, chiaro omaggio al cinema romantico e malinconico del Sergio numero uno. Che la scrittura di Quentin abbia perso smalto mi sembra una grave allucinazione (andate a risentirvi i dialoghi nella scena con George al ranch, in auto con Pussycat, nel finale tra Di Caprio e Hirsch). Consiglio di rivederlo almeno 3 volte, senza scherzare, per cogliere l'estrema acutezza con cui ogni sequenza è stata studiata con una doppia funzione: raccontare una storia nella Storia e divertire malinconicamente. D'altronde, un regista che sa evolvere è degno di spettatori che sanno cambiare sguardo sul cinema

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