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Certain Women - Recensione

Tre storie di donne si intersecano collateralmente in una zona del rurale Montana: vincitore del London Film Festival 2016, Certain Women di Kelly Reichardt è un film che sprigiona un lirismo molto femminile condito da un intelligente senso dell’umorismo

Certain Women è l’opera che ha trionfato al London Film Festival 2016, diretto dalla regista statunitense Kelly Reichardt, una 'beniamina' delle giurie dei festival, ma un po’ meno conosciuta dal grande pubblico. Il film è adattato da tre brevi racconti di Maile Meloy e da qui la narrazione tripartita che mette in scena le storie separate di tre donne (o quattro) molto diverse, che si intersecano solo collateralmente nella stessa zona del rurale Montana.
Il primo dei tre episodi vede Laura Dern nei panni dell’avvocata Laura Wells. Laura è alle prese con Fuller (Jared Harris), un cliente che capiamo subito essere uno dei suoi più problematici. Il pover’uomo non si rassegna al fatto che non sussista alcun elemento valido per denunciare un ex datore di lavoro e Laura non riesce a convincerlo, nemmeno dopo averlo portato da un collega che conferma l’inutilità a procedere. Fuller è frustrato e rabbioso e il disastro della sua vita affettiva non fa che peggiorare il suo umore e lo porterà a prendere pericolose decisioni.
La seconda storia, forse la più debole delle tre, ha come protagonista Gina (Michelle Williams) che con il marito e la figlia adolescente e musona visitano un anziano dal quale vorrebbero comprare della pietra arenaria da inglobare nella loro nuova casa in costruzione. Il vecchio possiede una pila di questa bella pietra che Gina ha adocchiato e ne sembra ossessionata e con il marito cerca di convincerlo a venderla. Ne segue una buffa conversazione in cui l’anziano si ostina a rivolgersi solo al marito di Gina che in fondo è il meno interessato alla cosa. Inoltre, un elemento del primo racconto del film ci fa capire che la coppia in questione traballa un po’ alle fondamenta e questo rende la narrazione fuori registro e leggermente surreale.
Il terzo racconto è una vera chicca, il mio favorito, grazie anche alla bella e solida performance della giovane attrice nativa americana Lily Gladstone, supportata da Kristen Stewart di cui abbiamo già notato l’impegno in ruoli meno mainstream e più di qualità. La Gladstone è Jamie, una ragazza solitaria che lavora completamente sola in un ranch. Seguita ovunque da un affettuoso cagnolino, la ragazza esegue con energia e pazienza i lavori pesanti e stereotipicamente maschili del ranch, giorno dopo giorno in una routine quasi esasperante. Come unica distrazione Jamie si iscrive ad un corso serale per adulti. Beth (Stewart) è l’insegnante del corso, una giovane avvocata che ogni settimana si fa un lungo viaggio in macchina per tenere questo corso serale e sbarcare il lunario. Jamie prende l’abitudine di accompagnarla a mangiare un boccone dopo le lezioni, prima che Beth si rimetta in macchina, e di fare due chiacchiere. Le ragazze formano un piccolo legame da questa abitudine, ma i sentimenti di Jamie sono di natura romantica.
Il film è fortemente basato sulle prove del cast che in questo ultimo film della Reichardt è decisamente high profile e regala delle performance dalle mille sfumature, da assaporare come un vino importante.
Nonostante il secondo episodio sia quello che forse lascia più freddi, in un certo senso è quello che più esplicitamente simboleggia la mancanza di comunicazione, comune a tutti e tre le storie. Laura fallisce nel riportare alla ragione Fuller che, a sua volta, usa vie molto indirette ed estreme per comunicare la sua frustrazione e solitudine a Laura. Gina è assecondata da marito e figlia, complici nel silenzio e ignorata dal vecchio, ed al ritorno esprime il suo desiderio di piantare radici attraverso delle pietre. E infine c’è Jamie, che vuole comunicare il suo amore per Beth nell’unica lingua che conosce, ovvero quella della sua silenziosa routine di forte presenza fisica che ogni giorno pratica nel ranch. Gli sconfinati e malinconici paesaggi rurali nordamericani sullo sfondo amplificano la sensazione che ognuno parli una propria lingua e le restrizioni dei ruoli che altri ci impongono.
C’è molto non detto in questo film rarefatto, a volte troppo, e una certa disorganicità che rischia di lasciare un frustrante senso di insoddisfazione. Il primo episodio è quello che ha la storia più compiuta e che segue di più i canoni tradizionali di narrazione, il secondo è un mero aneddoto e il terzo potrebbe essere un bel cortometraggio a se stante. Ciò nonostante, ad elevare il film e a distanziarlo dai suoi difetti c’è un lirismo molto femminile, condito da un intelligente senso dell’umorismo che accomuna le storie di queste donne ristrette a compiti e ruoli diversi ma ugualmente faticosi da portare avanti. Come il personaggio di Laura Dern sottolinea: “essere uomini sarebbe riposante”.

Una scelta insolita quella della giuria del London Film Festival che solitamente vede vincere opere più commerciali, ma un buon coronamento di un festival che quest’anno ha convogliato senza mezzi termini le turbolenze del periodo storico che stiamo attraversando.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3.5

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Adriana Rosati

Segnata a vita da cinemini di parrocchia e dosi massicce di popcorn, oggi come da bambina, quando si spengono le luci in sala mi preparo a viaggiare.

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