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Joy - Film - Recensione - David O. Russell - 2016David O. Russell torna al cinema con un film ruffiano e retorico che celebra il mito del sogno americano. Una pellicola buonista e imperfetta, sorretta principalmente dalla bravura di Jennifer Lawrence

David O. Russell ha conquistato spesso il pubblico con le sue storie cariche di rassicurante ottimismo e strampalata coralità, capaci di esaltare la vittoria dei buoni sentimenti con semplicità e una certa dose di furbizia. Il suo ultimo film Joy non fa eccezione, contando su un cast collaudato di attori feticcio e su meccanismi ormai consolidati di affezione emotiva dello spettatore. Questa volta, però, il risultato è un affresco debole che non riesce a superare dinamiche troppo prevedibili e poco autentiche, incapaci di creare empatia e partecipazione.
La trama segue in maniera romanzata la vera storia Joy Mangano (Jennifer Lawrence), una ragazza brillante e ricca di ambizioni che si ritrova intrappolata in un’esistenza anonima costellata di sogni infranti. Con un matrimonio fallito alle spalle e una famiglia invadente con cui confrontarsi, Joy sente di dover abbandonare lo sconforto e la rassegnazione per afferrare quella felicità a cui il suo nome sembra averla destinata. La sua tenacia e la voglia di dare una svolta netta alla propria vita la spingeranno a inventare un prodotto innovativo, avviandola verso una strada di successo fatta di ostacoli solo apparentemente insormontabili.
La sceneggiatura di David O. Russell accumula i cliché tipici del racconto di formazione e riscatto, senza riuscire a dare spessore alle vicende raccontate. La costruzione narrativa è infatti lineare e banale, articolata su schemi che abusano di espedienti troppo scaltri per poter trasmettere veridicità alla storia. La prima parte della pellicola, in cui Joy è prigioniera di una desolante rete di relazioni umane e familiari, seppur nella sua caratterizzazione stereotipata ed eccessiva è ancora in grado di offrire qualche spunto grottesco interessante. Tuttavia si vira progressivamente verso l’eccesso retorico che esalta l’affermazione del sogno americano, secondo uno svolgimento scontato e poco coinvolgente. I personaggi non hanno una reale evoluzione all’interno della trama, ma fungono solo da elementi di contorno per catalizzare la trasformazione della protagonista. Si tratta peraltro di una metamorfosi sfacciata e inutilmente esibita, in quanto associata all’immancabile cambiamento fisico che sancisce un taglio netto (di capelli nel caso specifico) col passato. Il percorso di realizzazione personale appare solo superficialmente ricco di insidie, in quanto non si avverte mai una reale tensione o un climax drammatico negli avvenimenti che si susseguono. Joy dovrebbe incarnare la volontà di emergere e imporsi, una sorta di matriarca simbolo dell’indipendenza e dell’emancipazione. Ma è proprio questa figura strabordante a indebolire paradossalmente la pellicola: la sua grandezza vive infatti della piccolezza di coloro che la circondano, spesso talmente sacrificati al loro ruolo di artefici della rivalsa della protagonista da risultare caricaturali e ridicoli nella loro pochezza. A differenza di altri lavori dell’autore, inoltre, la dimensione corale fatica a fornire vitalità al film, sancendo il sostanziale fallimento di quella che voleva essere una sorta di grande epopea popolare moderna.
David O. Russell dirige con una certa indolenza che sfocia sovente nel manierismo. La sensazione di serialità nel confezionare situazioni e spunti narrativi appare evidente, così come la ricerca di teatralità nella messa in scena (sottolineata anche dagli inserti di una finta soap opera che si mescolano come frammenti stravaganti di un meta-racconto parallelo). L'effetto déjà-vu è però frequente, e l’impianto estetico del regista debole e privo di fascino, nonostante la discreta fotografia di Linus Sandgren (alla seconda collaborazione dopo American Hustle). Anche alcune soluzioni visive appaiono ormai ricorrenti (come i rapidi movimenti di camera e gli zoom alternati), contribuendo all’idea diffusa di stanchezza e ripetitività. Incomprensibili risultano anche alcune scelte di montaggio, che penalizzano ulteriormente il ritmo dell'intero lungometraggio.
Jennifer Lawrence si fa carico di sorreggere l’intera pellicola con la solita convincente interpretazione, non senza sbavature dovute principalmente ai limiti di un ruolo forse costruito fin troppo a sua misura. Il resto del cast appare invece sottotono, con un Robert De Niro privo di mordente e un evanescente Bradley Cooper.

Joy è una pellicola che denota una preoccupante deriva manierista nella filmografia di David O. Russell, un concentrato furbo e poco interessante di schemi collaudati ormai abusati, reiterati nel tentativo di confezionare con poco sforzo un prodotto il più aderente possibile ai canoni che hanno contribuito a decretare il successo dei suoi precedenti lavori. Troppo poco per una storia che non si assume alcun rischio, disperdendo nella convenzionalità ammiccante tutto il suo potenziale.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 2.5

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Simone Tricarico

Pensieri sparsi di un amante della Settima Arte, che si limita a constatare come il vero Cinema sia integrale riproduzione dell’irriproducibile.

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