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Diario Festival di Rotterdam 2014: uno sguardo vero a discapito della finzione

Si aggiunge un ulteriore tassello nella comprensione della proposta della 43esima edizione del Festival di Rotterdam. Dopo la riflessione sul presente, ora tocca alla storia spiegare la funzione del cinema

Spontaneità, esigenza di comunicare, riflessioni hanno caratterizzato le proiezioni dei giorni scorsi all'interno del concorso principale, l'Hivos Tiger Awards, all'International Film Festival di Rotterdam 2014. A queste ora si aggiunge la finzione, ossia la narrazione creata da un'istanza, da una volontà, ma che non racconta strettamente una realtà, come nel caso di Lose My Self di Jan Schomburg.

Il film narra la storia di Lena (Maria Schrader) che per una meningite non curata, è colpita improvvisamente da amnesia retrograda. Ciò le ha provocato la cancellazione della memoria affettiva in maniera quasi definitiva. La donna, quindi, non ricorda nulla della sua vita, non riconosce il marito Tore (Johannes Krisch) e si è dimenticata perfino di come si vive. L'uomo cerca di stimolarle i ricordi, ma non produce nessun risultato se non che la donna si appropria della personalità di Lena come fosse un modello; ripete meccanicamente le frasi che legge sul suo diario senza, però, capirne il senso. Questa situazione per Tore diventa insostenibile, fino a quando la protagonista è costretta a sforzarsi di capire quale possa essere la chiave per tornare ad essere una 'nuova' Lena.
Lose My Self si presenta, quindi, come una storia di finzione in cui il regista riflette sul tema dell'identità, su quali fattori intervengano nella sua formazione soprattutto in una donna che ha già trascorso metà della sua esistenza. Per dimostrare ciò, Schomburg concentra la sua attenzione sulla protagonista che, come una maschera, riesce a esprimere attraverso il volto e la mimica i processi mentali che attraversa. Questo aspetto, allo stesso tempo, rappresenta il valore ma anche il limite della pellicola in quanto, concentrandosi prevalentemente sulla donna, il regista si dimentica di dimostrare qual è il processo e quali sono gli stimoli che portano la protagonista a creare una nuova Lena, diversa e uguale dalla precedente. Il cambiamento nella donna, infatti, avviene rapidamente e con pochi elementi narrativi e psicologici in grado di giustificarlo.

Il regista tedesco lascia quindi nello spettatore degli interrogativi, proprio come avviene in Han Gong-Ju, film coreano di Lee Su-Jin. Anche questo si presenta come un film di finzione interpretato nel ruolo della protagonista della giovane Han Gong-Ju da Chun Woo-Hee. Questa dopo un evento traumatico è costretta ad abbandonare il suo villaggio, per trasferirsi in un'altra città. Qui cerca di costruire nuovamente la sua vita, ma non ci riesce in quanto il suo passato che si materializza nella ricomparsa improvvisa dei genitori che l'hanno abbandonata e nel ricordo di tragici eventi, la rendono indisponente e scontrosa nei confronti di tutto ciò che la circonda. Il regista coreano utilizza la stessa modalità di ripresa di Schomburg, ossia si focalizza sulla protagonista, descrivendone a fondo sentimenti, reazioni, pensieri e necessità. Così facendo, però, non emergono quegli eventi che hanno reso Han Gong-Ju così refrattaria al suo presente, il perché della cattiva natura del rapporto della giovane con i genitori, né tantomeno cosa del suo passato non le permette di vivere felice. In questo modo il film procede in un lento susseguirsi di azioni, scandito da una regia spesso poco presente, per arrivare a un finale che non si può definire tale. Se almeno in Lose My Self era velatamente espresso l'obiettivo della pellicola, nel film coreano è tutto (volutamente) nascosto.

Con Viktoria di Maya Vitkova si avverte un radiale cambio di rotta nella costruzione e negli scopi del film. Questo lungometraggio rumeno prodotto nel 2013 e seconda opera della regista, si propone come il film in grado di conquistare la giuria del Hivos Tiger Awards e il pubblico, per l'originale modo in cui interrogare il passato nella costruzione del presente. Viktoria (Daria Vitkova) nasce nel 1980 in Bulgaria durante l'ultima fase di vita dell'U.R.S.S., con una caratteristica: non ha cordone ombelicale e quindi ombelico. Per questo viene adottata dallo Stato bulgaro come 'bambina del futuro' e allo stesso tempo viene rinnegata dalla madre che non l'ha mai davvero voluta in quanto contraria a un dare un figlio alla sua nazione. Lo Stato, intanto, concede a Viktoria e alla sua famiglia tutto ciò che vuole; la bambina è coccolata e viziata, ma quando l'Unione Sovietica cade, il sogno finisce. La bambina cresce, quindi, grazie solo all'amore del padre, ma cerca disperatamente un contatto con la madre.
La regista costruisce un legame tra la protagonista, la sua Terra e lo Stato, proclamatosi vera madre della bambina, basato sul sangue. Quando la situazione politica cambia, però, questo 'cordone ombelicale' si sfalda e Viktoria scopre i sentimenti come l'unico ponte in grado di avvicinarla alla madre. Viktoria è, quindi, una riflessione sulla Storia delle ex repubbliche sovietiche, sull'eredità morale lasciata e su quali elementi si possa costruire una nuova coscienza nel momento in cui viene meno l'oppressivo apparato ideologico socialista. Tutto ciò appartiene direttamente alla storia della cineasta rumena e ciò si percepisce dalla sua emotiva regia a metà tra la modalità di narrazione, lenta e gelida, tipica della cinematografia russa, e le sperimentazioni visive che ci avvicinano al dramma subito dalla bambina.

A conclusione si può considerare quali altri elementi, oltre la disinvoltura e la spontaneità, i giovani registi presenti in concorso al Festival di Rotterdam considerino più validi per realizzare un film oggi. Questi hanno compreso come la finzione non sia del tutto efficace per esprimersi e sia preferibile il realismo, la storia vera, per illustrare i propri dubbi sulla contemporaneità e interrogarsi sul passato in proiezione del futuro.

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