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Diario Festival di Rotterdam 2014: questioni di tecnica

Ultima analisi della proposta cinematografica tra i film in concorso al Festival di Rotterdam 2014. Questa volta si tratta di capire la relazione tra tecnica e narrazione per arrivare a comprendere qual è il criterio alla base della selezione dell'Hivos Tiger Awards

Stanno per calare i titoli di coda al 43esimo Festival di Rotterdam. Pur essendoci ufficialmente ancora due giorni di attività, il grandioso De Doelen, centro funzionale e operativo della rassegna, comincia a svuotarsi, il numero delle proiezioni diminuisce e con giovedì si concludono anche le anteprime dei film nel concorso Hivos Tiger Awards.
Nell'aria si respira ancora fermento e socialità, ma in tono minore, perché il popolo del festival è un po' meno. Mentre il sole finalmente fa capolino su Rotterdam dopo giorni di cielo nuvoloso, gli unici che si aggirano per il De Doelen sono gli accreditati Cinemart, ossia i produttori, gli addetti ai lavori e i delegati delle case di distribuzione interessati a comprendere la nuova cinematografia presentata al festival.
Nonostante tutto ciò si può ancora esprimere una riflessione sulla proposta del Concorso principale. Dopo aver compreso quali siano gli stimoli e gli obbiettivi dei giovani registi, ora è il momento di comprenderne la tecnica, ossia la grammatica e il linguaggio che il cineasta utilizza per comunicare la sua idea.

Uno stretto legame tra tecnica e narrazione, innanzitutto, si evince in Happily Ever After di Tatjana Bozic. Il secondo lungometraggio della regista croata propone una riflessione sul suo rapporto con l'amore e con gli uomini, proprio nel momento della sua vita in cui sta per avere un bambino con il suo ultimo compagno. Per condurre questa indagine incontra i suoi ex fidanzati molti anni dopo il naufragio della storia insieme a loro. Tra una risata, un ricordo e molte bottiglie di vino, tutti gli uomini sono concordi nel dire che la donna ha un serio problema di relazione, dovuto, simpaticamente, a una sua malattia mentale.
Il film è girato dalla regista con una camera a mano che si lascia andare ad inquadrature che, soprattutto nei momenti di maggiore 'felicità', appaiono poco ricercate. La Bozic, inoltre, lascia totale libertà di espressione e linguaggio agli uomini che parlano ognuno una lingua differente, in quanto il giro della donna passa dalla Croazia, all'Inghilterra fino all'Olanda, montando il tutto come se fosse in presa diretta. Queste scelte linguistiche sono utili per portare lo spettatore al fianco dei protagonisti del documentario/lungometraggio, perché l'obiettivo di Happily Ever After e della regista è condividere.

Che il messaggio veicoli la tecnica lo pensa anche Luis Minarro, regista di Falling Star. Con il suo primo lungometraggio, Minarro decide di narrare un passo della storia del suo paese. La storia si svolge nel 1870, quando fu eletto Re di Spagna Amedeo di Savoia. Il suo regno è passato alla storia per essere stato molto breve, due anni circa, e per non essere mai riuscito a comunicare con il popolo, nonostante gli ottimi propositi di riforme sociali e costituzionali di cui era pervaso Amedeo al suo arrivo a Madrid. Per mettere in evidenza la solitudine del Re, abbandonato anche dalla moglie, Minarro svuota completamente di qualsiasi arredo gli interni della residenza reale, lasciando solo qualche drappeggio, simbolo di ostentata opulenza, e crea un'atmosfera silenziosa e immobile. I dialoghi tra Amedeo, la servitù e i suoi ministri sono ridotti al minimo. I loro movimenti sono lenti e inespressivi. Questa stasi perenne, inoltre, vuole sottolineare l'immobilismo della casa regnante nei confronti dei problemi sociali e finanziari del popolo che il Re, segregato nella sua abitazione, per volere dei ministri che non credono in lui, percepisce solo attraverso una sterile cronaca.
Il fine del regista, quindi, è sicuramente proporre la storia di Amedeo come metafora del presente della Spagna, ma anche ironizzare sulla sua figura di questo (non) Re. La pellicola, dunque, sconfina nel surreale, nel paradossale, soprattutto perché descrive Amedeo come una macchietta sempre scura in volto, ma a cui piace ballare, recitare Baudelaire alla servitù e fuggire di notte dalla sua abitazione, calandosi dalla finestra, utilizzando delle lenzuola legate tra loro.

Un altro modo di mettere in evidenza la solitudine umana la propone il giovane cineasta Mark Jackson nel film War Story. Per evidenziare l'alienazione della protagonista Lee (Catherine Keener), fotografa arrivata in Sicilia dopo essere stata ostaggio durante il conflitto in Libia, il regista si pone al fianco della donna con lo sguardo di un documentarista che vuole mostrare. Jackson pone la macchina da presa in un angolo della stanza d'albergo in cui la protagonista si è rifugiata, lasciando che lei esprima attraverso il suo volto, i suoi gesti catatonici e continui, come accendere continuamente una sigaretta, o spostare freneticamente la mobilia della stanza, il dramma che sta percorrendo dopo aver visto e fotografato cosa provoca la guerra. Il regista non interviene in questo flusso, lasciando che lo spettatore, mano mano che si dipana la pellicola, capisca la sua storia. Anche Jackson, quindi, decide di creare il vuoto, di non inserire né musica, ne dialoghi nella comprensione del dramma di Lee, in modo tale che il problema possa raggiungere chi osserva nel modo più efficace.

In conclusione, i film inseriti nell'Hivos Tiger Awards Competition al Festival di Rotterdam sono riusciti nell'intento di illustrare delle storie, delle esperienze, dei pensieri, ma soprattutto di rivelare un'idea di cinema.

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