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La ragazza d'autunno - Recensione

Dopo aver folgorato con Tesnota, esordio tra i più notevoli degli ultimi anni, Kantemir Balagov si conferma regista di grande talento con La ragazza d'autunno, racconto di due giovani donne che cercano di rinascere dalle macerie della guerra e da una Leningrado distrutta e stremata

La Leningrado appena uscita dalla guerra e dall’interminabile assedio subito, ridotta ad un cumulo di macerie e abitata da una umanità annientata e priva di ogni certezza, fa da sfondo, ma forse sarebbe da dire che è la protagonista silenziosa del film, all’opera seconda del giovane e talentuosissimo regista russo Kantemir Balagov che ci folgorò con Tesnota, uno degli esordi più potenti degli ultimi anni. In questa atmosfera da dopoguerra appena iniziato nel quale gli orrori della guerra continuano ad esseri presenti e ad atterrire la popolazione La ragazza d’autunno (altra libera interpretazione del titolo originale piuttosto rivedibile) racconta la storia di Iya, la spilungona cui allude il titolo originale (Dylda), una giovane che presta servizio in un ospedale affollato di reduci di guerra e che ha lasciato il fronte della guerra perché affetta da una grave forma di stress post trauma che si manifesta con delle assenze in cui il suo corpo diventa un pezzo di legno informe incapace di ogni movimento.
Iya accudisce Pashka, il piccolo figlioletto di Masha, una sua amica con la quale ha condiviso l’esperienza al fronte: tratta il ragazzino come fosse suo figlio donandogli un affetto smisurato. Il suo aspetto particolare (altissima, biondissima, di una bellezza un po’ androgina ma in certi frangenti irresistibile) sembra sposarsi alla perfezione col suo essere discreta e posata, ancora annientata nello spirito da una guerra che ha lasciato segni profondissimi e che ha cancellato ogni certezza sul futuro. Un giorno Masha torna dal fronte, ma Iya non potrà restituirle il figlio, un destino che si accanisce infatti lo ha strappato alla vita. Masha riponeva in Pashka tutte le sue speranze per ricominciare una vita: vorrebbe avere un altro figlio ma non può perché divenuta sterile in seguito alle ferite riportate e allora chiede a Iya di fare un figlio per lei, di fungere da surrogato materno affinché quella speranza che nutriva in Pashka possa trasferirsi in una nuova vita.
Il senso di colpa di Iya e quello di Masha, il rapporto in cui quest’ultima tenta di manipolare l’amica la quale tenta di resistere, danno alla storia l’impronta da tragedia, perché il futuro sembra non avere nulla in serbo per le due donne che affrontano la dura realtà in modo diverso: Iya in un sofferto silenzio, racchiusa nella sua fortezza inespugnabile, che vede nell’amica l’unica che possa penetrare nel suo universo, Masha più estroversa, propensa ad approfittare di un giovane figlio di una dirigente di partito che si infatua di lei e della cui generosità nei doni fatti di alimenti si serve per rendere la sua vita e quella dell’amica meno tragica e pesante.
Ma soprattutto quello che lentamente cresce è una tensione dapprima sottile, quindi sempre più tangibile tra le due donne che vedono la via d’uscita dalla situazione presente piena di incertezze in maniera diversa. Iya acconsentirà a fungere da madre surrogata accoppiandosi con un ufficiale medico che Masha con la sua capacità manipolatoria aveva messo nelle condizioni di accettare la proposta: vorrebbe sentire la vita crescere dentro di sé, anche per accondiscendere l’amica, ma i tentativi cui dovrà sottoporsi saranno più d’uno, accompagnati dal solito dolore silenzioso (magistrale la scena in cui accetta di accoppiarsi con l’uomo solo a patto che l'amica rimanga lì a tenerle la mano).
E’ un film sulla sopravvivenza quello che costruisce Balagov, uno sguardo su una epoca che ha azzerato la vita di molti, spazzato via famiglie, affetti, certezze, regalando solo cupe incertezze sul futuro, e il tentativo che ci racconta il regista di emergere dal buio di queste due giovani donne è una storia carica di pathos e di sentimenti spesso contrastanti.
La ricostruzione d’epoca che fa il regista, ottimamente coadiuvato in questo da Ksenia Sereda alla fotografia e dallo scenografo Sergei Ivanov, è accuratissima, dimostrando il grande talento visivo del giovane allievo di Aleksandr Sokurov; proprio al Maestro rimanda la cura dell’immagine, la scelta dei colori e delle luci, in un vorticoso ed elegantissimo fluire di immagini, ora in esterno, ora in interni ricostruiti in modo esemplare che ricordano per molti versi l’impronta artistica di Arca Russa.
Sui personaggi Balagov mette in atto un'attenta costruzione: i reduci, i medici e le infermiere che curano le loro malattie, addirittura una silenziosa e dolorosa eutanasia, le due ragazze che cercano di ricostruire sulle ceneri della loro esistenza da un lato, dall’altro la critica verso il potere attraverso la sprezzante figura della dirigente di partito, madre del ragazzo che frequenta Masha, che ci tiene a sottolineare una differenza di classe, attraverso l’accenno alle concubine del fronte, in un Paese che in nome dell’ideologia marxista ha azzerato le classi.
Indubbiamente Iya e Masha emergono dalla storia come due piccole e misere eroine di un’epoca storica che ha segnato una gran parte del mondo per tanti anni e dalle cui macerie è rinata la civiltà europea. L’eroismo silenzioso delle due donne sta nel loro tentativo di rimettersi in piedi, nell’aggrapparsi a quello che la vita può offrire (un figlio per Masha, l’amicizia, e forse anche qualcosa in più, con questa per Iya), nella ricerca di un ottimismo che spesso diventa tragedia.

Se Tesnota aveva folgorato per la maturità con la quale Balagov raccontava un dramma etnico-famigliare all’ombra di un altro periodo storico duro (le guerre in Cecenia), La ragazza d’autunno ne conferma la bravura e anche il coraggio di affrontare una tematica così lontana temporalmente da lui. Qualcuno ha parlato di noia che serpeggia all’interno della pellicola, i toni non sono certamente vivaci, i silenzi spesso dominano sulle parole, ma Balagov ha la capacità di sapere far parlare in modo mirabile le immagini e anche i silenzi conditi dagli sguardi riescono a dire molto. Non è certo la frenesia di una storia ad evitare la noia.
Straordinaria la prova delle due attrici protagoniste: Viktoria Miroshnichenko è veramente una figura quasi da cinema di altri tempi, bravissima con i suoi silenzi e i suoi sguardi a fare di Iya il perno intorno cui ruota tutta la storia, Vasilisa Perelygina nella parte di Masha ha la giusta tensione per mettere in mostra la grande e tragica voglia di riscatto del personaggio.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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