Jackie - Recensione
- Scritto da Davide Parpinel
- Pubblicato in Film in sala
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Un giornalista raggiunge la vedova Jacqueline Kennedy nella sua residenza dopo la morte di John Fitzgerald Kennedy. La donna lo accoglie con diffidenza e rabbia e controllando costantemente gli appunti dell'uomo, gli racconta i tre giorni successivi l'11 novembre 1963. La donna descrive come ha organizzato il funerale di Stato, come ha raccontato ai figli piccoli quanto accaduto, come ha cercato di proteggere la sua incolumità e infine, come ha preservato la figura del marito. Costantemente a cavallo tra indecisione e fragilità, la donna ricorda anche quei due anni trascorsi alla Casa Bianca tra concerti, balli, ospitate pubbliche nella perenne necessità di essere forte e decisa, in particolare quando ha tenuto sulle ginocchia la testa sanguinante del marito.
E' proprio questo il punto di analisi di Jackie proposto da Pablo Larrain. La vedova Kennedy è, infatti, ritratta come una persona fragile, inerme, sensibile, scossa, impaurita, sola (se non fosse per l'assistenza del cognato Robert Kennedy, interpretato da Peter Sarsgaard), indifesa, perché improvvisamente ha perso suo marito, quell'uomo che nonostante tutto ha sostenuto e si è fatta da lui sorreggere. Nel descrivere ciò il regista cileno letteralmente incolla la macchina da presa al volto di Natalie Portman, che esprime una potente e vera mimica facciale segnata da tutti questi stati d'animo. Quando deve confrontarsi con il protocollo di stato per il funerale, quando ricorda come è stato essere la First Lady, quale volontà ha dimostrato nel risistemare a suo piacimento e consacrare a sua immagine la Casa Bianca, in ognuna di queste fasi la macchina non lascia il volto dell'attrice perché in quello sguardo, sembra dirci il regista, risiede il significato del film.
La vita di Jaqueline è, così, ricostruita a sezioni, grazie all'uso del dialogo. Il regista, infatti, la pone sempre in continuo raffronto con qualcuno. Che sia Bob, un'amica, il presidente Johnson, i funzionari della Casa Bianca, il giornalista cui concede l'intervista o un padre spirituale, Jackie in ogni confronto con loro cresce umanamente, prende coscienza della situazione, del perché di quanto le è accaduto, e chiarisce i suoi stati d'animo, fino al finale. Qui la macchina da presa di Larrain si stacca dal volto della Portman e sorvola l'immenso corteo funebre in una Washington attonita e silenziosa, per poi concentrarsi sulla deposizione del feretro all'altezza dello sguardo della vedova, come se il pubblico stesse osservando con i suoi occhi. In questo momento scompare Jacqueline, per nascere Jackie, la donna che è rinata dal suo stesso dolore e che inizia una nuova esistenza. Qui cambia, inoltre, l'espressione della Portman, che dalla fragilità e insicurezza con cui si poneva al fianco del marito Presidente, all'incertezza e alla paura dei giorni successivi alla morte, diventa diffidente, decisa, quasi sprezzante come si nota quando accoglie in casa il giornalista all'inizio del film o come quando ricontrolla gli appunti da lui presi per evitare fraintendimenti.
Il regista cileno, pertanto, costruisce un ritratto privato di patetismi e facili commozioni come solo un non americano avrebbe potuto fare per il personaggio e la Storia. Larrain filma una pellicola biografica-tragica in cui non solo restituisce l'evoluzione della donna, da semplice moglie a depositaria della consacrazione come mito di se stessa e del marito, ma soprattutto propone una sfumatura di Jacqueline Kennedy che nessuna macchina fotografica ha mai carpito e nessuna penna è mai riuscita a descrivere, quella umana in una confezione visiva essenziale e vibrante.
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Davide Parpinel
Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.