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I Dannati - Recensione

Il documentarista Roberto Minervini arriva al cinema di finzione con una storia che sembra in tutto e per tutto un documentario. I Dannati è un film molto chiaro in quello che vuole mostrare e dimostrare e per questo si inserisce perfettamente nella filmografia del regista.

1862. All’inizio della Guerra Civile americana le milizie nordamericane, quelle degli Stati Uniti d’America, vestite di blu si spingono verso ovest. Di fronte a loro solo chilometri di terra senza anima viva, solo qualche pepita d’oro che emerge dal terreno. In un lungo tempo si consuma la vita di un gruppo di soldati che tra la scarsità di cibo, la neve e qualche discussione sulle armi cercano non si sa bene cosa, mentre sono in attesa dei rinforzi.

Il film si apre con l’inquadratura di alcuni lupi che sbranano avidamente il cadavere di un grosso animale e si chiude con i soldati statunitensi che trovano un po’ di pace al calare della neve sui loro volti. Non è un’anticipazione del finale de I Dannati, non vi stiamo svelando come termina la pellicola di Roberto Minervini, perché il film è semplicemente un breve (seppur lungo nei tempi del racconto) segmento di esistenza di alcuni soldati che si interrompe bruscamente, lasciando intendere che invece la loro vita prosegua. I Dannati, The Damned titolo originale premiato nel concorso Un Certain Regard con il premio alla Miglior Regia al 77esimo Festival di Cannes, è un’osservazione del regista marchigiano su uno stato di esistenza specifico che si apre con la metafora peggiore, l’uccisione più brutale e si chiude con la consapevolezza di come di fronte all’orrore la neve che si poggia sul viso sporco e stanco degli uomini conservi e trasmetta un valore profondo di riacquisizione della vita. Ma chi sono questi dannati e perché sono dannati? Minervini racconta nel suo primo film di finzione (ci torneremo dopo su questo aspetto) un attimo di vita di alcuni soldati degli Stati Uniti che all’inizio della Guerra Civile americana si spingono verso ovest per ispezionare e conquistare nuovi territori. Questi sono, tra gli altri, un padre con due figli molto giovani; un ragazzo proveniente dalla California; un soldato molto esperto nell’uso delle armi, nelle tecniche di perlustrazione e nella strategia militare. Poi ci sono altri soldati le cui esistenze lo spettatore impara a conoscere attraverso i loro racconti. Si scopre, quindi, che sono tutti volontari, che tutti loro all’inizio della Guerra civile hanno creduto nella causa di Lincoln e nella soppressione della schiavitù. Credono tutti, inoltre, nella Provvidenza e nella parole di Dio e soprattutto tutti credono nella paura. Il regista non permette a questo sentimento di emergere con prepotenza, ma lo lascia sottointeso nelle parole dei soldati, nella loro indecisione di fronte alle azioni da prendere, nei lunghi silenzi che scandiscono le loro giornate mentre guardano lontano. Aspettano, come Beckett insegna. Attendono i commilitoni che non arrivano, credono negli aiuti, ma in guerra tutto è difficile e non resta che aggrapparsi alla speranza di sopravvivere, di arrivare in fondo, di aiuto. Questo asse narrativo è ben sviluppato da Minervini attraverso le azioni dei soldati protagonisti. Anche quando vengono assaliti dai potenti colpi d’arma da fuoco del nemico di cui lo spettatore vede e sente soltanto lo scoppio, ma non la faccia, i soldati protagonisti non perdono la loro speranza/consapevolezza di sopravvivere e quindi combattono e affrontano l’avversario. Sono quindi, costretti a seguito di questo episodio, a spostarsi, e nelle loro esplorazioni in mezzo al freddo, alla neve, al gelo, perché intanto il tempo della loro attesa delle guarnigioni amiche si è prolungato di molto, il manipolo di miliari statunitensi si aggrappa alla vita, nonostante il cibo scarseggi e non ferma la sua missione verso ovest. Minervini non lascia spazio alla tragedia, ai crolli emotivi, alla disperazione che sintetizza in maniera minimale sempre nei primissimi piani dei volti e degli sguardi dei protagonisti. Per questo i soldati nemici non sono inquadrati, perché non rilevanti ai fini della storia; per questo ne I Dannati non c’è spazio per nient’altro se non per questo gruppetto di miliziani, perché il film sono loro e il loro precario stato di vita che cercano di sotterrare dentro la loro determinazione e convinzione di stare dalla parte giusta della storia. Capite quindi, perché la neve che cade su dei volti rappresenti un momento di felicità così potete da far dimenticare la loro condizione di dannati e, in particolare, una delle leggi animali primordiali ossia che il più forte uccide il più debole.

Passiamo a Minervini. Il regista marchigiano, ma statunitense d’azione, è un documentarista che sin dal suo esordio nel lungometraggio con The Passage del 2011, ha analizzato il reale a modo suo lasciando che la storia prenda vita nel montaggio, stando vicino alle esistenze descritte, utilizzando un’osservazione partecipativa in cui chi guarda vive, respira, partecipa alle azioni e alle vite di chi sta davanti alla macchina da presa. Nel suo percorso di indagine sul territorio e sulla cultura americana sviluppato tra Low Tide - Bassa marea, Stop The Pouding Heart, Louisiana: The Other Side e Che fare quando il mondo è in fiamme?, era intuibile che Minervini volesse raccontare a un certo punto le origini di questo Paese, partendo proprio dalla storia. La scelta del film di finzione, di genere storico, era quindi naturale. Qui però, come già accennato, il regista porta tutte le caratteristiche del suo documentario come il suo farsi da parte per lasciare che al centro della narrazione ci siano i protagonisti, le riprese molto lunghe narrative o meditative che siano, un sonoro molto accentuato, la partecipazione e il patto di fede che stipula con chi recita per fare in modo che le interpretazioni siano il più reali e vive possibili nonostante la presenza della macchina da presa. I Dannati si impernia su queste caratteristiche e trova la sua forza nel suo essere un piccolo frammento tra il nulla e il tutto, fuori dal tempo, ma dentro la storia, dentro le vite di quei soldati che forse non sono così distanti dalla nostra contemporaneità.  


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3.5

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Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

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