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Gli orsi non esistono - Recensione

L’ultimo lavoro del regista iraniano Jafar Panahi è, anche questo, come gli ultimi tre, girato in clandestinità. Qui lui stesso gira un film a distanza, perché non può uscire dall’Iran, mentre vive in una piccola comunità locale. In qualche modo cerca di fare il suo mestiere, ma il potere, locale e statale, arriva a opporsi ai suoi piani

In una città della Turchia, una donna esce da un ristorante e incontra un uomo che le consegna un passaporto falso. Sono iraniani e cercano in qualunque modo di arrivare in Europa per acquisire, così, la loro libertà lontano dal governo di Teheran. Avere un passaporto clandestino, però, non è così semplice e infatti l’uomo sembra non averlo ancora trovato. Questa scena non è reale, bensì fa parte di un film che Jafar Panahi sta girando a distanza. Lui, infatti, si trova in un villaggio nei sobborghi della capitale iraniana in cui temporaneamente alloggia e documenta la vita rurale dei suoi abitanti. Un giorno scatta una foto durante un matrimonio che innesca un problema di gelosie e contrasti tra due uomini. Credenze, superstizioni da parte degli abitanti del villaggio ingigantiscono la vicenda, fino a quando non giunge l'ingerenza del potere centrale. Panahi, così, è costretto a dover abbandonare la comunità rurale e a proseguire nel suo lavoro di regista a distanza da un’altra parte. Gli orsi non esistono? Pare non ce ne siano né nel piccolo centro abitato, né sul set del film; un uomo, invece, contro tutto e contro tutti sembra non voler smettere di lottare.
Non ci sono orsi qui? Questo è l’interrogativo che il regista iraniano Jafar Panahi consegna allo spettatore. La scena finale, l’ultima inquadratura, quel primissimo piano che chiude il film sembra, però, suggerire una risposta positiva alla domanda. Un orso, un uomo coraggioso, un uomo che a oggi, fine 2022, si trova in carcere semplicemente perché ha chiesto informazioni sulla reclusione di Mohammad Rasoulof, Orso d’oro al Festival di Berlino 2020 per Il male non esiste. Questa è la motivazione ufficiosa, in quanto il governo di Teheran ha dichiarato che Panahi è in carcere perché deve scontare una (presunta) condanna risalente a dieci anni fa. La sua vita, però, da recluso forzato dura da diversi anni in quanto dal 2010 al regista è stato tolto il permesso di girare nuovi film, di rilasciare interviste e di spostarsi dall’Iran per vent’anni. Quindi come è stato per This is not a film (2011), Pardè (2013), Taxi Teheran (2015) e Tre volti del 2018, anche Gli orsi non esistono è stato girato in clandestinità. Sempre come in Tre volti, inoltre, Panahi affronta un discorso sulle comunità rurali, sul peso delle tradizioni a volte incomprensibili, sui matrimoni combinati, sui giuramenti sacri, sui conflitti atavici e sulle superstizioni. Da questo spunto, nella sua ultima opera, prende forza la finzione del film che però finzione non è. Il film, infatti, ha uno stile documentaristico ben preciso che si esprime nella sua libertà di movimento e di espressione in quella comunità rurale in cui vive. Ecco perché il regista utilizza un’inquadratura spesso fissa; riprende il dialogo, il confronto tra due persone a debita distanza come fosse solo un osservatore, senza intromettersi; allo stesso modo riprende le scene di massa da lontano, permettendo così ai protagonisti di muoversi nella libertà delle loro azioni e lascia che le scenografie respirino della decadenza dei paesini di pietra. Impostando visivamente così il suo film, Panahi vuole testimoniare, mostrare la vera e reale composizione di un nucleo abitato nella campagna iraniana e parallelamente, sia la triste vicenda di chi desidera libertà e vuole allontanarsi a malincuore dal suo Paese, che la sua condizione di recluso forzato nella sua terra a tal punto di aver paura ad avvicinarsi al confine di stato, come si vede in una scena del film. Gli orsi non esistono è, perciò, concreto, umano, emotivamente collegato alle reazioni di ciò che accade veramente. Questo è dimostrato dalla reazione esplosiva che una sua foto innesca in quanto ritrae una promessa sposa mentre si avvicina innocentemente verso un altro uomo, il suo vero amato. Panahi ha mostrato il vero amore che va oltre le convenzioni e gli accordi famigliari e per questo è cacciato da quel potere che lo perseguita, che gli infligge delle punizioni sottili e snervanti. Andare via o restare come dice l’attrice del suo film girato a distanza. Perché scappare? Perché allontanarsi?

Con Gli orsi non esistono, come del resto anche in buona parte della sua cinematografia, il regista iraniano lotta contro la paura intesa come una forma di controllo alimentata dalle superstizioni ancestrali e dallo Stato; contro questo status quo che castiga e porta alla disperazione chi, come lui, cerca di mostrare all’Occidente una realtà di cui si parla poco. Panahi, però, continua a combattere, vuole essere un testimone. Racconta la sua esperienza personalmente con determinazione, non si arrende, film dopo film. Ultima annotazione: Gli orsi non esistono ha vinto il Premio Speciale della Giuria alla 79esima Mostra del Cinema di Venezia. Forse meritava molto di più, un premio più simbolicamente rilevante così da fornire un nuovo scudo a Panahi per proseguire nella sua resistenza.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4

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Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

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