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L'estate di Giacomo

Una immagine tratta da L'estate di GiacomoOpera prima del giovane regista friulano Alessandro Comodin, premiato nel 2011 a Locarno con il Pardo d'oro Cineasti del Presente. Pellicola monastica, coraggiosa e sincera che alterna formidabili scoglionamenti a momenti felici

L'esordiente Alessandro Comodin insegue, con l’occhio segugio del documentarista, momenti d’estate di un diciottenne friulano. Nella sequenza d’apertura del film, Giacomo (bravo l'interprete Zulian), di spalle, suona la batteria e l’apparecchio acustico dietro l’orecchio ci dice che è sordo, mentre in quella successiva, ove cammina con l’amica nei boschi per raggiungere un’ansa del fiume Tagliamento – luogo magico... “sembra le Maldive”, dirà lui –, lo sentiamo parlare un po’ strano, alla maniera dei sordi. E il film va via così, per pedinamento serrato. Comodin inchioda la macchina da presa alla nuca e alle spalle dei due e li guarda nel fiume, in campagna, alle feste paesane, al luna park, in bicicletta. Talvolta il tallonamento è estenuante, il cazzeggio dei dialoghi esasperato e spesso la noia sorpassa il (fisiologico) livello di guardia. Ma ci sono anche attimi felici e spiazzanti, quelli rarefatti e sospesi (nel sole, nell’acqua, nell’aria, nel tempo) ove l’estate e il fermento dell'adolescenza si fermano fondendosi – i corpi si scrutano, si ritraggono indecisi poi si cercano, tentando di vedersi dentro – e il documento si fa racconto d’immagine interiore (splendida la breve sequenza al fiume dopo la sabbia nell’occhio dell'amica: primo piano di lei e lui fuori campo che parla). Poi ci sarà un’altra amica, stessa spiaggia, stesso fiume, diversi approcci del corpo, più adulti, e non necessitava la voce off della ragazza a spiegare, a mo’ di lettera aperta, ciò che già si intuisce. Ed ora … ta-dah! Ecco che m’intrufolo nel giochetto dei rimandi della critica titolata, quello in cui chi arriva primo spara e gli altri in coro si accodano; i ‘titolati’, a cominciar dai francesi abili a coltivarsi il proprio prezzemolo, sferrano i nomi noti di Eric Rohmer, François Truffaut (più in generale la Nouvelle Vague), perfino Jean Renoir (perché la locandina dipinta ha un vago quid di papà Pierre-Auguste? Bah!). Detto che vederci tutta ‘sta roba è come spingere un vitello dentro l'oblò della lavatrice, ovvero a dir poco forzato, adesso gioco anch'io. Rilancio un Apichatpong Weerasethakul. Sì perché i momenti riusciti del film, quelli di pura levitazione, mi hanno teletrasportato sopra ‘sto regista thailandese dal nome marziano, uno che riesce a pigliare magicamente chi guarda mostrando corpi a zonzo nella foresta e quell’ipnotico venti per cento di assolata macchia friulana è stato per me la giungla di Weerasethakul.
 
Auguro lunga vita di futuri cine-pedinamenti al fiero sguardo del prode Comodin, magari un po' meno spartani... magari più dalla parte dello spettatore (normodotato). Che non va punito: paga e si passa parola. Quella del cinefilo stoico, che si contorce sulla poltrona della sala vuota ma resta indefesso nel posto assegnatogli, è razza in via d'estinzione.

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