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Dream House

Una immagine tratta da Dream HouseIl padre lo ripudia, il produttore lo adotta e lo plasma a sua immagine, spiegandone i motivi nell’accattivante ma risolutivo trailer, che rende inutile la visione di un film ingiustamente sottovalutato

In estate, si sa, le città si spopolano e lasciano centri storici e parchi in balia di turisti e freak di varia natura. Nelle sale accade la stessa cosa: ibridi di difficile collocazione (La leggenda del cacciatore di vampiri), belle idee abortite (Chernobyl Diaries), vecchie glorie rispolverate (Le iene), affollano l’offerta delle multisala che devono comunque proiettare per sentirsi vive.
Anche Dream House appartiene a questa corte dei miracoli.
Film dalla difficile genesi produttiva, con il regista esautorato ma poi inserito come padre nei credits, montato e mal risolto dal tutore della produzione, esce con un anno di ritardo nelle nostre sale. D’estate, appunto.
Lo accompagnano la fama di flop negli Stati Uniti e il più spoilerante provino (scusate l’arcaico termine ma dovevo compensare il precedente) mai visto.
La trama non è nuova, nelle premesse. Una famiglia felice che trasloca in una casa. La casa nasconde segreti. I segreti sono paurosi.
Ora, se avete visto il trailer, risparmiate i pur economici costi del biglietto estivo e andate a mangiarvi un bel cialdone di gelato. Se non l’avete visto, invece, il film merita sicuramente una visione per diverse ragioni.
Anzitutto la mano del regista. Jim Sheridan è sempre molto attento a delineare i mondi interiori dei personaggi, a rendere credibili le loro reazioni e a farne partecipe lo spettatore. Con queste premesse, il thriller psicologico era una buona occasione per applicarle. E lo fa. Tutta la prima parte e anche l’inizio della seconda hanno uno spessore che raramente si trova in prodotti simili. Nella risoluzione e nell’epilogo si perde, ma pare sia stato proprio la messa in discussione della sceneggiatura, la causa dei dissensi con la produzione.
Altro motivo, la prova degli attori. Daniel Craig ha questa maschera dolente di default che lo rende credibile e intenso anche nel non facile passaggio dalla prima alla seconda parte (prego notare l’assoluta volontà di non spoilerare). Naomi ‘bionda stoppacciosa’ Watts gli è degna compagna, in quanto a dolenza espressiva e Rachel Weisz fa (è) la bella oca, come sempre, ma qui funziona.

È vero, il finale rotola

senza senso, un po’ come in un giallo scritto male, dove ci si è incartati a tal punto che si deve ricorrere al passante per introdurre l’assassino, ma l’atmosfera malata e di dolore rimane. Come rimane questo film, cui sarebbero bastate un po’ più di cure economiche e pazienze produttive per nascere in… autunno.

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