Recensioni film in sala

Ti trovi qui:HomeCinema e dintorniIn salaWomb

Womb

Una immagine tratta da WombWomb si presenta da sé, sull'incipit. “È finita. Io ti parlerò sempre, non importa se tu non dirai niente. Solo perché sei andato via non significa che tu non sei più qui. Forse, tutto quello di cui avevo bisogno era questo dono. Quello che mi hai dato alla fine”

C’è un mondo liquido, futuristico e futuribile, a mezza via tra specchio e sogno, nelle terre nordiche al blu cobalto di Benedek Fliegauf, regista ungherese alla sua quarta opera, ma è un mondo a venire che parla una lingua antica, quella della Tragedia, quella del Mito che dà voce all’uomo e alle sue paure, al dolore, al male, al destino. Alla vita. Perché in Womb – dico subito che è bello e struggente – naviga l’umanità e ciò che la muove, ovvero l’Amore. Vi si narra la storia di Rebecca e di Tommy, due esseri che s’incontrano fanciulli e di nuovo, più tardi, già adulti e di come la scintilla del cuore, dall’infanzia che fu, si dilati nel tempo e cammini cammini, e continui, e divampi di là dal possibile, dal pensabile, oltre i cancelli del Fato in agguato nelle nuvole gonfie del Mare del Nord; al di là della morte di Tommy, perché, per amore, nascerà un altro Tommy, non figlio, ma clone. È una fantascienza dell’anima, questa di Womb, che si srotola dentro lande deserte, suggestioni da finis terrae, oasi silenti, cupe azzurrità ovattate in cui è imprigionata, a mo’ di confino, un’idea, un credo che si fa volontà caparbia, ossessione determinata, pura, innocente e niente e nessuno ne disturba l'incedere. Perché mare, cielo e terra qui inglobano la storia intera, come il ventre del titolo, come il grembo di Rebecca, una bellissima Eva Green davvero brava a passare tenera e ferma ostinazione (intensa pure Lesley Manville nel breve ruolo di madre del primo Tommy). Da gaudente spettatore (più) cinefago (che cinefilo) qual sono, posso dirlo forte: non si creda all'occhio criticone ‘snobbone’ che dice di ricerca estetizzante, silenzio che non ce la fa, vuoto d'opinione, morbosità e blablabla, a quelli che un incesto li affossa – ne hanno paura? –, ché poi incesto non è. Se si ha la fortuna di incocciare ‘sta pellicola,  la si prenda al volo. È un film che ci riesce. Riesce a tenerti dentro di sé – sì, 117 minuti di gestazione – mentre sei lì che lo guardi. Forse anche poi, oltre lo schermo al nero. E sembra quasi di sentirlo il grido disperato che il replicante Roy  – devo dirlo che è il biondo lavoro in pelle di Ridley Scott? – lancia disperato al suo creatore: “Voglio più vita, padre!”. Quel grido, qui, è dell’Amore che, a dar fiducia all’ultimo sguardo di colei che ne ha sfidato ostinata la morte, replicante certo non è.

Astenersi perditempo: cercatori di 'messaggi', di trattati scientifici d'ingegneria genetica o di sbrodolate moral-filosofiche sulla clonazione.

Vai alla scheda del film




Lascia un commento

Assicurati di inserire (*) le informazioni necessarie ove indicato.
Codice HTML non è permesso.

Questo sito utilizza cookie per il suo funzionamento. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. Se vuoi avere maggiori informazioni, leggi la Cookies policy.