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Intervista a Nobuhiro Yamashita

“Parto sempre dall’idea di voler osservare e raccontare gli individui nel momento in cui la vita li pone di fronte a dei possibili cambiamenti”: incontro a Roma con il regista di Linda Linda Linda. L’autore giapponese ci parla del suo cinema, del rapporto con la musica, del suo nuovo film Hard-Core e di Hirokazu Koreeda...

Il ritorno dell’Asian Film Festival a Roma non è stato solo un evento speciale che dopo otto anni ha riportato la rassegna diretta da Antonio Termenini nella città in cui aveva mosso i primi passi (le ultime edizioni si sono svolte a Bologna), ma ha rappresentato anche una ghiotta occasione per parlare con Nobuhiro Yamashita, il regista di Linda Linda Linda a cui la rassegna ha voluto dedicare un omaggio con la proiezione di due suoi film recenti (La La La at Rock Bottom e Over the Fence).

Specialista di storie esistenziali dal sapore malinconico, popolate per lo più da personaggi apparentemente inerti e trattenuti, Yamashita ci ha concesso un’intervista prima di incontrare il pubblico in occasione della proiezione di Over the Fence. Il regista ci accoglie sfoggiando il suo immancabile cappello, in una stanza dell'Apollo 11, la sala che ha ospitato le proiezioni dell'Asian Film Festival.

Molti dei suoi film sembrano accomunati dal desiderio di raccontare storie di individui che devono relazionarsi a cambiamenti e transizioni nelle loro vite. Come nasce l’interesse per questo tipo di storie?
Quando mi accingo a realizzare un film, parto sempre dall’idea di voler osservare e raccontare gli individui nel momento in cui la vita li pone di fronte a dei possibili cambiamenti, a volte anche in modo impalpabile. Cambiamenti i cui effetti però non hanno ricadute concrete, perché i miei personaggi sembrano quasi impermeabili ai mutamenti. Questo nasce dalla mia convinzione che nella realtà le persone, pur compiendo dei piccoli passi in avanti in quello che è il percorso della vita, non si evolvono mai veramente, anche quando tutto intorno a loro sta cambiando. Anche io sono così: vorrei crescere e maturare di più come persona, ho questo desiderio costante, ma poi mi rendo conto che nel corso degli anni sono fondamentalmente sempre la stessa persona, con i propri pregi e difetti.

Un altro punto di continuità del suo cinema è una certa predilezione per i personaggi atipici, un po’ fuori dall’ordinario. Ho letto in alcune note biografiche che l’ispirazione per questi personaggi prende vita dalle esperienze vissute da suoi amici e conoscenti.
A dir il vero non è proprio così. Ogni protagonista dei miei film racconta una parte di me stesso, di ciò che ho vissuto in prima persona, e solo in piccolissima parte rispecchia ciò che ho visto attraverso le persone che mi stanno vicino. In un caso però, ovvero per la protagonista di Tamako in Moratorium, quello che vediamo sullo schermo è stato rielaborato partendo dal vissuto di mia moglie. In genere i protagonisti dei miei film sono persone che si sentono un po’ fuori dalla società, individui imperfetti che vivono quasi in maniera maldestra le loro esistenze. Attraverso di loro cerco di rielaborare aspetti che fanno parte del mio carattere.

A fare da collante alle sue storie c’è una forte componente minimalista nella messa in scena: una peculiarità è il modo naturale con cui dirige gli attori.
Come molti sanno, ogni regista ha un suo stile. Alcuni hanno già in mente come deve essere girata una scena prima di arrivare sul set. Io non sono così: preferisco che siano gli attori a decidere come muoversi e relazionarsi tra di loro in una scena, io poi li osservo come se cercassi di studiarli, provando con la macchina da presa a valorizzare come meglio possibile le emozioni che lasciano trasparire sul set. Mi reputo un regista che non ha una grande sensibilità estetica per la costruzione delle immagini. Cerco quindi di focalizzarmi maggiormente sul lavoro con gli attori, sulla interazione tra essi e la macchina da presa. Non sono capace di costruire storie troppo complesse o cervellotiche, quindi mi affido maggiormente alla naturalezza (ride).

Una curiosità. Ho notato che i suoi ultimi film sono privi dell’apporto di Kosuke Mukai, lo sceneggiatore che è stato al suo fianco sin dal film d’esordio Hazy Life. Dopo quasi quindici anni, il vostro rapporto di collaborazione si è interrotto. Come mai?
Il motivo principale è che Kosuke Mukai si è trasferito a Pechino da circa tre anni, per attività di studio. Ultimamente sta lavorando con altri registi, così come anche io sto collaborando con altri sceneggiatori. Quando avrò ancora bisogno del suo aiuto, cercherò di averlo di nuovo al mio fianco. Inoltre in questo momento Mukai sta scrivendo un romanzo, è quindi molto impegnato.

Kosuke Mukai ha peraltro collaborato a quel piccolo-grande cult che è Linda Linda Linda, il suo film forse più conosciuto in Occidente. Uno degli elementi che hanno contribuito al successo della pellicola è il rapporto dei protagonisti con la musica. In molti dei suoi lavori si ha l’impressione che la presenza della musica svolga un ruolo fondamentale. Come si relaziona al suo utilizzo?    
La musica ha sempre avuto un ruolo importante nel processo creativo dei miei film, a cominciare dalla fase di scrittura. Ho sempre pensato che la musica abbia il potere di trasmettere un’energia particolare, per esempio divertire le persone e farle stare bene, eppure per me il modo in cui riesce a veicolare delle emozioni resta un grande mistero. Faccio il regista da circa venti anni, ma la musica è sempre stata qualcosa che sfugge alla mia comprensione. Non so dare una definizione di cosa è la musica, ma è qualcosa a cui penso molto. Il lavoro sulla musica per i miei film nasce quindi dal tentativo di esplorare le sensazioni che essa può comunicare.

A novembre uscirà il suo nuovo lavoro Hard-Core, tratto dal manga Hard-Core: Heisei Jigoku Brothers, scritto dal grande Marley Carib (noto anche come Garon Tsuchiya, autore del celebre Oldboy a cui Park Chan-wook si ispirò per l’omonimo film) e disegnato da Takashi Imashiro. Può anticiparci qualcosa sul film?
Ho letto per la prima volta il manga quando avevo 22 anni: ricordo che fu uno shock per me, mi colpì nel profondo. Aspettavo da tempo di avere l’occasione per trasformare in immagini le emozioni che avevo provato leggendo il manga. Quasi tutti i miei film sono un po’ legati a questo lavoro di Marley Carib e Takashi Imashiro, all’influenza che esercitò su di me. Non saprei però come descrivere la storia del mio film. Come posso dire… Hard-Core è sostanzialmente la storia un gruppo di persone con un cuore puro che però compiono brutte azioni. È una storia molto particolare.

Se ripensa a quando lei ha iniziato a fare film, come vede cambiato il cinema giapponese negli ultimi venti anni?
Rispetto ai miei inizi, vedo che ci sono più registi in circolazione e di conseguenza più film da poter guardare, più scelta per il pubblico. Alla fine degli anni Novanta, quando ho iniziato a muovere i primi passi come regista, i film venivano ancora girati su pellicola, un supporto che aveva un costo molto alto che rendeva difficile e faticoso realizzare un lungometraggio. Con l’avvento del digitale è cambiato tutto: ora è sicuramente più facile avere la possibilità di girare un film. Tuttavia la qualità media delle opere cinematografiche è un po’ calata: si è persa un po’ di forza espressiva, forse perché prima noi registi investivamo più energie in quello che facevamo, questo era dovuto al fatto che i costi della pellicola esercitavano più pressione sul nostro lavoro.

Dopo la Palma d’oro a Cannes per Un affare di famiglia, Hirokazu Koreeda è stato al centro di polemiche in Giappone: alcuni lo hanno criticato accusandolo di aver usato fondi pubblici per un film che danneggia l’immagine del Paese, altri non hanno gradito la sua decisione di rifiutare un incontro con il Ministro della Cultura Yoshimasa Hayashi (ma anche con altri esponenti politici) per celebrare il suo trionfo al festival francese. Koreeda si è difeso rivendicando soprattutto l’estraneità del cinema a forme di approvazione da parte della politica (per approfondire, clicca qui). Come ha vissuto queste polemiche?
Dalla parte di Koreeda. Quando alcuni hanno iniziato a parlare di lui attaccandolo, ho capito che Un affare di famiglia aveva toccato più di un nervo scoperto di una parte dell’opinione pubblica e della politica. Koreeda ha fatto la cosa giusta, prima con quello che ha raccontato nel suo film e poi nel modo in cui ha difeso la sua indipendenza: ha vinto lui.



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