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Una gallina nel vento - Recensione (Venezia 79 - Classici)

Restaurato dalla Shochiku, torna a nuova vita uno dei lungometraggi meno celebrati di Yasujiro Ozu. Atipico all’interno della sua filmografia per la tensione drammatica, ma realizzato con il rigore formale che caratterizza lo stile del grande regista giapponese. Da (ri)scoprire

La parte di filmografia più conosciuta di Yasujiro Ozu è sicuramente quella che inizia nel 1949 con Tarda primavera e va avanti sino al suo ultimo lavoro, Il gusto del sake, quasi come fosse un unico grande progetto con piccole variazioni sul tema. Arrivando l’anno prima di quel capolavoro che segna un momento fondamentale nella carriera del grande regista, Una gallina nel vento è finito per essere stato abbastanza dimenticato anche da chi si professa ozuiano. Pur risultando minore nel paragone con altri titoli del maestro giapponese, merita comunque di essere riscoperto. Sia per il linguaggio cinematografico che si inserisce perfettamente nel percorso personale del regista sia per la dimensione tematica e narrativa che invece presenta un carattere abbastanza atipico all’interno della sua filmografia.
Una gallina nel vento è il secondo lungometraggio, dopo Il chi è di un inquilino, diretto da Ozu dal termine della Seconda guerra mondiale. E come il precedente è evidentemente influenzato dal conflitto, dalla situazione post-bellica. Protagonista una donna di nome Tokiko che vive da sola con il figlio piccolo in una stanza in affitto mentre il marito, anche se la guerra è finita, non è tornato dal fronte e risulta disperso. A causa dell’inflazione si trova sempre di più in difficoltà economiche e quando il bambino si ammala è costretta a vendere il proprio corpo, una sola volta, per pagare le spese mediche. Poco tempo dopo il marito fa finalmente ritorno a casa, ma l’iniziale felicità non dura molto. Per sua natura onesta, Tokiko non può fare a meno di confessargli il modo in cui è riuscita a trovare i soldi necessari a curare il figlio. L’uomo, però, si dimostra poco comprensivo. Pur con un’apertura finale, senza scendere nel dettaglio, è forse il film più drammatico e triste di Ozu. Con scene anche violente. Non c’è posto per l’ironia, la leggerezza pur pregna di significato che accompagna lo svolgimento dei suoi lavori più noti dov’è comunque insita una certa amarezza. Per certi versi, in particolare riguardo al sacrificio femminile, potrebbe sembrare un film di Kenji Mizoguchi. E la protagonista è la sua musa, la straordinaria Kinuyo Tanaka che ha lavorato comunque più volte con Ozu. In un paio di occasioni dopo Una gallina nel vento (in particolare Fiori d’equinozio e Le sorelle Munekata), ma anche prima. Negli anni Trenta dove il regista realizza alcuni film che per l’attenzione a personaggi umili, alla classe subalterna, si possono avvicinare al lungometraggio proiettato nella sezione Venezia Classici (in Una donna di Tokyo la protagonista si prostituisce per permettere al fratello di fare l’università).
Da Tarda primavera l’osservazione si sposta invece più sul ceto medio e il rapporto tra generazioni nel contrasto tra tradizione e modernità. Pur con queste particolarità il film per lo stile è pienamente riconoscibile come un’opera di Ozu. Dalle inquadrature ad altezza di tatami, al campo-controcampo frontale nelle conversazioni tra i personaggi, dalla poetica descrizione dell’ambientazione con scene di passaggio, inserti tipici come le immagini dei panni stesi ad asciugare, alla narrazione ellittica che omette eventi di rilievo.

Nel complesso un titolo sicuramente minore nella straordinaria filmografia di Ozu, ma che rappresenta un momento di passaggio interessante verso l’evoluzione definitiva del suo cinema che arriva a compimento con i capolavori successivi.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3.5

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Fabio Canessa

Viaggio continuamente nel tempo e nello spazio per placare un'irresistibile sete di film.  Con la voglia di raccontare qualche tappa di questo dolce naufragar nel mare della settima arte.

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