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The Crossing: Part II - Recensione

La seconda parte di The Crossing del Maestro di Hong Kong John Woo conferma le impressioni scaturite dalla prima: prodotto tecnicamente valido ma freddo e con poco coinvolgimento emozionale

L’impressione che era affiorata dopo la visione della prima parte di The Crossing si consolida con il secondo capitolo: la scelta di presentare il film in due parti per pure finalità commerciali risulta scellerata, ancor di più in considerazione che nella sua valutazione complessiva il lavoro di John Woo è pellicola più prossima alla delusione che al lavoro di qualità.
Per tale motivo la raccomandazione è d’obbligo: le due parti vanno viste in rapida successione perché vanno ritenute di fatto due puntate della stessa storia, pena la difficoltà di riannodare i fili narrativi.
L’opera di John Woo infatti nella sua seconda parte prosegue esattamente quanto era rimasto troncato brutalmente nella prima: stessa impronta, stessi ritmi, medesime atmosfere che concorrono a portare a termine le storie parallele che si sfiorano in talune circostanze nel corso del periodo storico che va dalla fine della guerra mondiale alla conquista della Cina da parte delle forze comuniste e la fuga dei nazionalisti a Taiwan.
Verso il finale di The Crossing: Part II è narrato l’episodio del piroscafo Taiping, al bordo del quale le vicende dei protagonisti che abbiamo seguito per alcuni anni giungono all’epilogo: il naufragio della nave che portò a morte migliaia di persone con pochissimi superstiti diventa quasi l’episodio finale che permette a Woo di riannodare i fili del racconto rimanendo però bel lontano dal volersi ergersi come il Titanic cinese, come molto superficialmente certa critica ha cercato di presentare The Crossing. Che la definizione oltre che superficiale sia profondamente falsa, lo dimostra il fatto che tutto sommato nell’arco delle oltre quattro ore complessive dell’opera il naufragio occupa una piccola parte nella quale, tra l’altro, a parte un paio di scene, non c’è certo quello sfarzo tecnologico per ricostruire l’incidente come invece fece James Cameron con il suo lavoro.
Messa da parte una volta per tutte questa mistificazione, The Crossing però non ha molto da offrire: in questa seconda parte anzi il ritmo del racconto spesso rallenta fin quasi alla noia, indugiando eccessivamente sulla storia della popolana Yu Zhen che cerca il suo fidanzato, salvo poi provare a partire per Taiwan nella speranza che lui possa essersi messo in salvo sull’isola, del medico Zenkun che torna a casa e deve far fronte alle smanie rivoluzionarie del fratello, al timore della madre di perdere un altro figlio e al ricordo dell'amata fidanzata giapponese ripartita da Taiwan, della moglie del generale nazionalista Yufeng in attesa a Taiwan del ritorno del marito; storie che John Woo sembra avere anche una certa difficoltà a tenere insieme contemporaneamente.
Quello che il film ha di buono è sicuramente l’ambientazione storica accurata, le atmosfere d’epoca ben ricostruite, la cura per l’immagine e una regia che riesce a tenere in piedi una storia che, nel suo complesso, non riesce a coinvolgere: The Crossing è un prodotto ben confezionato che però non emoziona, non avvicina i personaggi e anzi sembra scavare minuto dopo minuto un fossato con loro. Persino le leggendarie colombe di John Woo - che anche qui vediamo un po’ forzatamente aggirarsi intorno al Taiping prima della partenza - sembrano fuori luogo ed estranee, quasi un tocco di autorialità molto poco convincente.

Insomma le quattro ore di The Crossing viste nel loro insieme strutturale unitario sembrano più che ridondanti, e soprattutto, prive per larga parte di carica emotiva. Chi è appassionato del grande regista di Hong Kong troverà senza dubbio qualche buon motivo per vedere il film e vi troverà all’interno qualche seppur flebile traccia del suo stile. Prescindendo da questo, però, The Crossing è opera nella quale le ombre nascondo gli sprazzi di luce.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 2.5

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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