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Intervista a Lav Diaz per The Woman Who Left

Lav Diaz - Intervista - Venezia 73 - Mostra - 2016A tu per tu con Lav Diaz poche ore prima della cerimonia di premiazione che ha incoronato il suo film con il Leone d'oro alla 73esima Mostra del Cinema di Venezia. Abbiamo fatto un po' di domande al regista che ci ha risposto con una vitalità inaspettata. Al termine dell'incontro, infine, ci ha rivelato anche un'amicizia particolare

Sabato 10 settembre, ultimo giorno della Mostra del Cinema di Venezia 2016. Giovedì 8 è stato presentato alla stampa The Woman Who Left, mentre il giorno dopo c'è stata la proiezione per il pubblico in Sala Grande. Il film è stato accolto molto bene in entrambi i casi, in quanto è stato riconosciuto un po' da tutti l'enorme valenza educativa e la straordinaria spinta riflessiva insite nella pellicola. Potrebbe rischiare, quindi, di ricevere un premio, ma questo poco interessa a Lav Diaz. Quando infatti lo incontriamo, non pensa alla serata di premiazione che di lì a poco gli avrebbe regalato il Leone d'oro. E' seduto al Club 73 con aria serena e rilassata, con quel sorriso sornione che lo contraddistingue e il suo look da motociclista. Ha voglia di parlare, di condividere il suo pensiero non solo sul suo film, ma anche sul suo cinema e su come questo si sviluppi nel panorama cinematografico contemporaneo.

Perché ha deciso di collocare la storia narrata in The Woman Who Left nel 1997?
Il 1997 è stato un anno molto affascinante per i suoi conflitti. Nelle Filippine ci furono vari rapimenti ed era diffuso un clima generale di paura e tensione. A livello internazionale ci furono molti eventi epocali: Hong Kong tornò alla Cina, morirono Lady Diana in quel modo così violento e Madre Teresa di Calcutta. Molte cose successero quell'anno, molto complesse e importanti. Per questo ho deciso di ambientare la mia storia nel 1997 e di raccontare qualcosa di quell'anno che riguardi i tormenti e le problematiche degli uomini.

Nel corso della Storia lei può individuare un altro anno con la stessa rilevanza del 1997?
Dipende dall'esperienza individuale. Ho capito che il 1997 è stato un anno complesso solo quando ho iniziato a fare delle ricerche. Ho usato quell'anno e quel momento storico come contesto per la lotta dei personaggi. Allo stesso modo potrei usare il 2084 per immaginare un'altra storia, magari fantascientifica, con ad esempio gli alieni colonizzatori della Terra. E' una propria scelta il periodo storico in cui si decide di calare una storia. 

I suoi film raggiungono minutaggi fuori dagli standard. Pensa che questo sia il miglior modo per esprimere il suo cinema?
Sono un regista libero che rifiuta imposizioni. La mia prima decisione da regista è stata emancipare il mio cinema. Voglio fare cinema a modo mio. E' semplice: se voglio essere libero, devo essere un individuo libero, come un artista, provando anche a comprendere i media, le loro convenzioni, seppur le rifiuti.

Lei appunto si definisce un regista libero. Il cinema, a livello internazionale, è libero? E' forse necessaria maggiore libertà artistica?
Penso di sì, senza i festival non si potrebbero vedere i miei film. Questo è lo spazio che ho. Sono spazi liberi dove registi come me posso mostrare i propri lavori senza troppe imposizioni e senza le grandi corporazioni, come i grandi mostri di Hollywood. C'è da dire, però, che esiste una doppia realtà anche all'interno dei festival, in quanto anche le grandi case di produzione spingono per avere il loro spazio. Ed è questa doppia realtà a cui mi devo relazionare.

Per comprendere la vita dell'uomo di oggi, quanto ancora il cinema e le sue storie possono essere utili nell'ottica di quella ricerca sulla continuità umana tra presente e passato che è una delle peculiarità del suo cinema?
Per me il mio cinema è come un viaggio e lo utilizzo per capire non solo la vita ma il cinema stesso. Faccio cinema, ma sto ancora cercando di capire perché uso proprio il cinema come mezzo di espressione. I film sono uno strumento potente per cambiare la cultura, le menti e i pensieri della gente. Noi registi ci impegniamo al massimo per partecipare ai festival perché essi sono piattaforme che rappresentano un ottimo spazio dialettico per capire le altre culture. Possiamo ancora fare molto attraverso il cinema, che ha ancora un peso nella società di oggi.

Lei crede che continuerà a fare cinema come lo fa adesso o in futuro potrebbe cambiare qualcosa? Pensa che il suo stile possa mutare anche considerando gli spunti offerti dalla Storia?
Nel momento in cui adotti un metodo, questo muta, e con esso tu cambi, cambia la tua metodologia di pensiero, cambia la cornice entro cui riflettere. Progredisci, cresci e questo dipende solo da te. In ogni caso questo modo libero di fare cinema si scontrerà sempre con le convenzioni ad esso legate, con le sue regole. Ma se vuoi farlo a modo tuo, il cinema è un mezzo di espressione libero e molto potente. Se sei un artista, puoi scegliere di esprimerti liberamente o di sottostare alle regole. Dipende da te. Se vuoi correre il rischio, lo corri. Se vuoi sottostare alle regole, alle convenzioni, segui il modello di Hollywood. Credo che ci sia bisogno di distruggere il muro della paura, essere coraggiosi.

Lei è d'accordo con l'affermazione che meno soldi si hanno per fare un film, più potere si ha?
E' vero. Io ho la mia piccola camera, le mie 2-3 lenti e questo mi è sufficiente. Non voglio essere limitato dal potere dei soldi. Quando ti affanni a cercare i soldi per realizzare un film, ormai il momento per farlo è passato, perché si aspettano anche anni per avere una risposta dalla case di produzione. Ci sono quelli che si pongono l'obiettivo di ottenere 5 milioni di dollari per girare... Io non li capisco, quando ho l'ispirazione prendo la mia camera e vado. Il film diventa così più organico, più vero, più onesto. Per fare ad esempio The Woman Who Left ho utilizzato 75.000 dollari.

Lei quest'anno ha presentato due suoi film in due festival: qui alla Mostra The Woman Who Left e al Festival di Berlino A Lullaby to the Sorrowful Mystery. Come è riuscito a essere così prolifico?
Nelle Filippine è semplice fare cinema. Ho un'attrezzatura esigua e una troupe con poche persone al mio fianco. Lavoro sulle mie storie in maniera davvero molto semplice. 

Quanto tempo, quindi, impiega per fare un film?
La preparazione, ovvero fare il casting, trovare le location e realizzare la sceneggiatura che scrivo autonomamente, è la parte più difficile. A me non interessa lavorare per un grosso progetto, ma avere attorno a me una troupe con cui poter collaborare liberamente. Solitamente convoco gli attori prima delle riprese, per concordare insieme il film e decidere come svilupparlo. Una volta terminata questa fase, abbiamo il film.

The Woman Who Lefts, come anche gli altri suoi film, ha il potere di svegliare le coscienze. Crede che nelle Filippine possa avere lo stesso effetto?
Sì. Nelle Filippine c'è uno sforzo a realizzare film che, attraverso le loro storie, possano educare le persone. E ciò avviene non solo attraverso il cinema, ma anche attraverso i media, i giornali, la radio, ma è un processo lungo. E' una battaglia molto complessa. Non si può pensare di inseguire questo obiettivo con facilità. Si può usare il cinema, si può usare la musica, ma quanto lontano possiamo andare? Come artisti, come operatori della cultura, come scrittori, tutti noi abbiamo il dovere morale di continuare a fare questo.

Lei ha dei contatti con altri registi filippini?
Più che con i filippini ho stretto una buona amicizia con Pedro Costa e anche con Wang Bing, mio grande compagno di bevute!



Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

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