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Il prigioniero coreano - Recensione

Il prigioniero coreano - The Net - Film - 2016 - Kim Ki-duk - Recensione Un pescatore si trova tra le due Coree vessato da interrogatori, ingiustizie e corruzione. Riesce comunque a mantenere la sua integrità, ma fino a quando? Il nuovo film del regista Leone d'oro per Pietà è una storia di finzione che vuol essere riflessiva, ma che appare, invece, piatta e senza accenti

Nam Chul-woo è un pescatore nordcoreano che vive con la moglie e la figlia. Un giorno come ogni giorno sta pescando, ma la sua barca si rompe e pur non volendolo finisce trascinato dalla corrente oltre il confine con la Corea del Sud. Qui viene immediatamente accusato di essere una spia. Per questo è interrogato e torturato nella speranza di estorcergli una confessione volontaria. Ben presto i funzionari delle autorità sudcoreane si rendono conto che l'uomo non è una spia e quindi sono costretti a rilasciarlo e riconsegnarlo alla parte Nord. L'uomo è qui accolto come un trionfatore dal popolo, ma i servizi segreti sono titubanti e lo interrogano per molto tempo al fine di capire se è ancora possibile fidarsi di lui. Il pescatore così, esausto da continue domande e sevizie psicologiche, non può far altro che attestarsi nei confronti di una realtà che scopre non essere dissimile tra Nord e Sud. L'essere umano, infatti, ha gli stessi medesimi interessi sia che abiti sotto un regime o in una società capitalista.
Osservando Il prigioniero coreano (Geumul) appare chiaro ciò che Kim Ki-duk ha voluto narrare. Al centro della sua riflessione, infatti, ha posto l'ipocrisia dell'uomo e la facilità con cui può cedere alle tentazioni del denaro. Nel film, infatti, l'individuo viene rappresentato come un arrivista, testardo, ottuso, vile, falso, doppiogiochista e miserabile. E' capace di vendersi per poco e comprarsi per una verità che solo lui persegue. Tutti i personaggi della pellicola appaiono dominati da questi non-valori, tranne il pescatore, interpretato da Ryoo Seung-bum. Questo appare devoto al suo Paese, alla sua ideologia e alle sue regole, tanto da non cedere mai nelle tentazioni-esche capitaliste della parte Sud. Ha dei principi etici e morali che persegue anche se è posto sotto pressione dagli interrogatori, perché lui crede, è pieno di quel modo di pensare che domina il regime nordcoreano.
Nam appare, dunque, inflessibile sia nel corpo, seppur spezzato, che nello sguardo. Al rientro in Corea del Nord urla con convinzione un motto nazionalista e quando è posto sotto torchio dai servizi segreti del suo Paese non sembra dimostrare nessun tipo di perplessità nel proporre la sua fedeltà. E' un fanatico convinto che cammina per Seul con la mano sugli occhi, per non cedere agli stimoli del capitalismo come gli è stato insegnato. Eppure questo personaggio potrebbe avere delle sfumature. Nel corso del film, osservando come subisce gli interrogatori, si potrebbe pensare che sia davvero una spia. Anche osservando in che modo la sua imbarcazione attraversa il confine e come lui non faccia niente per impedirlo, lascia molti dubbi. Kim Ki-duk avrebbe, quindi, potuto solcare questa ipotesi, insinuare nella mente di chi guarda il dubbio sulla figura di Nam, ma ciò non accade perché quello che il regista vuole proporre è solo l'ingenua moralità del personaggio. La sua rettitudine di pensiero è, infatti, compromessa dalla 'rete' del titolo che attanaglia tutti gli uomini. I dollari che l'agente di polizia sudcoreano, interpretato da Lee Won-gun, gli regala, in quanto è sempre stato convinto della buona fede dell'uomo, sono, infatti, la chiave per riacquisire la sua libertà al rientro in patria.
Il prigioniero coreano, dunque, lascia la sensazione che manchi qualcosa. Manca la cifra stilistica di Kim Ki-duk, manca quel graffio prepotente che ha fatto appassionare al suo cinema molte persone. Manca innanzitutto la poesia della sua macchina da presa che illustra e affascina. Manca quel coefficiente di rabbia che ha spesso sospinto le sue pellicole che a volte si è tradotta in una violenza esasperata e in altri casi in una furia istintiva. Il prigioniero coreano è un film chiaro nella esplicitazione del suo contenuto, ma piatto, senza squilli, un po' 'fighetto', buonista, ben pensante, che accontenta tutti.

Quando Nam il pescatore ritorna a casa sconfitto da quanto gli è accaduto, la rabbia con cui esplode è contenuta, limitata in maniera ingiustificata, considerando il danno e la beffa che ha dovuto subire. La reazione dell'uomo, pertanto, si traduce in una scena prevedibile. Per questo Il prigioniero coreano si lascia guardare, ma non riesce nel tentativo di imprimere una riflessione come il pubblico si è sempre atteso dal cinema di Kim Ki-duk.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 2.5

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Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

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