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Hidden Man - Recensione

Terzo lavoro di Jiang Wen incentrato sul periodo storico della prima Repubblica cinese, Hidden Man presenta meno spunti sociali (anche contemporanei) e più action, imponendosi come spy story pirotecnica, divertente e formalmente impeccabile

Lasciata alle spalle l’esperienza attoriale hollywoodiana di Rouge One di due anni or sono, Jiang Wen torna a concentrarsi sul suo cinema e in particolare sul periodo storico dei primi decenni della Repubblica cinese, epoca in cui sono ambientati sia Let the Bullets Fly che C'era una volta a Shanghai, i più recenti lavori che precedono questo Hidden Man: sebbene non ci sia alcun riferimento che porti a considerare gli ultimi tre lavori del regista cinese facenti parte di un unico discorso cinematografico, si ritiene comunemente che Hidden Man sia il tassello conclusivo (almeno per ora) di un (molto) ideale trittico che ha appunto come tema centrale la prima era repubblicana cinese.
Ispirato alla novella wuxia The Reclusive Hero dello scrittore Zhang Beihai, Hidden Man è un racconto di vendetta e di onore,  argomenti centrali del genere wuxia; ma siccome Jiang si è molto liberamente ispirato, va detto subito che non assisteremo a mirabolanti combattimenti (solo un paio) o a uno sfoggio di tecnica marziale, né a funambolici guerrieri che saltano da un tetto ad un altro. Il regista, infatti, pur conservando alcune di queste caratteristiche, spesso rielaborandole con l’ironia che gli è propria (vedi il continuo passeggiare sui tetti del protagonista), anche in questo caso intende elaborare un discorso più incentrato sull’epoca storica.
Il film ha un prologo che sembra uscito dritto dritto da una pellicola di Tarantino: un maestro d’arti marziali viene ucciso in casa insieme a tutta la sua famiglia da un allievo traditore, Zhu, e il suo compare giapponese Nemoto perché non vuole cedere a questi i terreni su cui coltivare l’oppio. Teste mozzate, zampilli di sangue e un incendio dal quale si salva solo il tredicenne Li Tianran, un trovatello che il maestro d’arti marziali ha adottato e che viene a sua volta salvato dalle fiamme che lo stanno per divorare da un medico americano di passaggio sul luogo della strage. Quindici anni dopo, Li Tianran è in America, ha terminato il suo addestramento ed è pronto a diventare un agente segreto. Ha coltivato la sua passione per le arti marziali e ha assunto il suo nome occidentale di Bruce Li (…non è un caso…bensì una boutade anacronistica tipica di Jiang). Quando gli viene comunicato che sta per essere inviato a Peiping (che altro non è che Pechino, così chiamata nel periodo pre bellico in cui la capitale era stata spostata a Nanchino), Bruce-Tianran Li intravvede la possibilità di dare corpo alla sua vendetta che aspetta da quindici anni. Giunto in Cina e accolto dal padre adottivo (il medico che lo salvò), il ragazzo scopre subito che Zhu il marrano è capo della polizia e il suo compare giapponese Nemoto insegna confucianesimo in una scuola, ma la vendetta deve lasciare il posto all’obiettivo per cui Li è stato mandato in Cina.
Il personaggio chiave della storia diventa ben presto Lan, uno di quei manovratori occulti che in un film di spionaggio ci stanno sempre, uno che sembra avere solo amici e non nemici e che si muove con molta disinvoltura tra un fronte e l’altro.
Intrighi di spie, doppiogiochisti, traditori al soldo dei giapponesi ormai alle porte pronti a stanziarsi in Cina, una repubblica debole squassata dalle lotte intestine e messa in continuo repentaglio dai fremiti nostalgici imperiali dei signori della guerra, fanno da sfondo al racconto di vendetta e di sete di potere, stavolta a differenza dei due precedenti lavori di Jiang, con meno riferimenti chiari all’epoca moderna che qualche problema con la censura causarono; per molti aspetti anzi è il tema nazionalista anti-nipponico a fare da tessuto connettivo del racconto, anche se sostanzialmente Hidden Man è un film nel quale esistono tutti i classici canoni della spy story: spie, femme fatale, vendette, ribaltoni e tradimenti, misteri insoluti. Jiang Wen, con il suo stile inconfondibile adatta il genere alla sua visione più squisitamente orientale e soprattutto plasmandola con la sua ironia al limite del surreale, grazie alla quale regala svariati spunti spesso esilaranti (il già citato anacronismo su Bruce Lee, il continuo rimando al Sogno della Camera Rossa che sarebbe stata scritta nella casa in cui vive Lan, una forzatissima ma esilarante invettiva contro i critici cinematografici attraverso la figura di un personaggio minore).
La scelta di offrirci una visuale panoramica dai tetti, sui quali si muove spesso Li, oltre ad essere una divertente variante sui funambolismi dei guerrieri wuxia, appare forse un'autocitazione di In the Heat of the Sun, lavoro del 1994, di certo tra i suoi migliori.

Sebbene Hidden Man sia risultato lavoro per molti deludente e per il pubblico non così attraente come i due precedenti, rimane comunque un film bello, probabilmente meno impegnativo mancando quella carica di critica sociale che contraddistingue solitamente le opere di Jiang. Nonostante questo spostamento verso il film più popolare e mainstream, Hidden Man conserva netti i tratti del cinema di Jiang: le bellissime ambientazioni, l’ironia spesso dissacrante, lo sguardo stralunato che fa apparire verosimili situazioni al limite dell’assurdo, la regia che sa sostenere sempre il ritmo del racconto.
Il cast di altissimo livello, degno di un kolossal, concorre alla riuscita del lavoro. Accanto ad Eddie Peng nel ruolo di Li Tianran, troviamo un perfido Liao Fan, perfetto anche in un ruolo detestabile, lo stesso Jiang Wen nel ruolo di Lan, non a caso il vero burattinaio del racconto, Zhou Yun e Xu Qing, rispettivamente il modello virtuoso e quello vizioso di femme fatale.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3.5

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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