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Dead Souls - Recensione

Con Dead Souls Wang Bing torna al documentario monumentale e al periodo storico, quasi cancellato, dei campi di rieducazione della Campagna anti-destra dei tardi Anni '50: il film è un sentito e prezioso documento storico che fa luce e rende dignità alle numerose vittime

La campagna anti-destra inaugurata da Mao sul finire degli Anni '50, finalizzata alla detenzione e al recupero dei soggetti etichettati come destrorsi, spesso solo per avere espresso qualche opinione sull’operato di quadri di partito, è stata uno dei temi principali della filmografia di Wang Bing, a partire dal 2007 con Fengming, a Chinese Memoir, passando attraverso The Ditch, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia del 2012, unica incursione del documentarista cinese nel cinema di finzione, seppur molto sui generis.
Dead Souls, che ha avuto la sua première allo scorso Festival di Cannes, è il ritorno ai documentari di durata oceanica (oltre 8 ore), che si pone come un ponte tra i due lavori citati, anche perché una gran parte delle centinaia di ore di filmati da cui Wang ha attinto per montare il film, risale a interviste e incontri avuti dal regista a partire dal 2005 fino al 2017.
Se Fengming, a Chinese Memoir era il magnifico ritratto di una donna assoluta protagonista come vittima della campagna del 1959 e in seguito anche degli eventi folli della Rivoluzione Culturale, che raccontava tra l’altro la triste fine del marito proprio nel campo di Jiabiangou nel Gansu che è l’occulto e terribile protagonista di Dead Souls e anche di The Ditch (più che un film, una ricostruzione storica di finzione della realtà del medesimo campo di rieducazione), quest’ultima titanica impresa di Wang è una completa, dettagliata raccolta di decine di testimonianze dei pochissimi sopravvissuti e, in qualche caso, di parenti stretti di prigionieri morti, costruita con una logica di pura documentazione storica relativa ad un periodo, quello appunto a cavallo tra la fine degli Anni '50 e l’inizio dei '60, di cui gran parte dei cinesi ignora l’esistenza, costituendo ancora oggi argomento tabù.
Wang incontra i protagonisti di quel dramma, spesso in periodi diversi a distanza di anni, scandendo di ognuno di loro le poche ma essenziali informazioni (età, provenienza, data di morte) ed evitando quanto più possibile di interagire ponendo domande: la circa mezzora di testimonianza di ciascun personaggio diventa quindi un lungo racconto, a volte confuso, altre lucidissimo e dettagliato di una esperienza che possiamo ben definire al di là di quelli che sono i limiti della dignità umana.
Quello che emerge più di tutto dalle testimonianze è la coscienza di avere vissuto per un certo periodo della vita al di fuori di ogni regola elementare umana: tutto era ammesso, spinti dalla forza di sopravvivenza come per un animale in gabbia affamato, persino la cancellazione della coscienza e della personalità che diventava tangibile per ogni compagno di detenzione che moriva e veniva segretamente sepolto alla meno peggio nelle dure terre desertiche del Gansu o lasciato avvolto in una coperta tra le dune ghiacciate del deserto del Gobi. Anche chi è tornato vivo è di fatto morto come essere umano in quei mesi di durissima vita di campo, nonostante qualcuno dei testimoni, veri comunisti e non destrorsi come venivano tacciati di essere, era persino convinto che quella rieducazione col duro lavoro lo avrebbe migliorato e reso un seguace di Mao migliore.
In due sole circostanza, a parte il finale scarno e terribile, Wang Bing viene meno all’intervista ad inquadratura fissa frontale: la prima volta nel mostrarci, in una scena bellissima, il funerale di un reduce del campo morto di vecchiaia che si svolge in una regione rurale montuosa nel quale assistiamo all’accorata orazione del figlio che ricorda i dolori e le umiliazioni subite dal padre etichettato come destrorso; la seconda volta il raccapricciante incontro di alcuni sopravvissuti che si ritrovano nella regione desertica dove sorgeva il campo di Mingshui, una parte di quello più grande di Jiabiangou, le cui vestigia sono i tumuli di terra che nascondono le ossa, molte delle quali venute alla superficie, dei morti nel campo di rieducazione, intorno a cui pascolano le poche pecore di qualche raro pastore. La pietas di Wang Bing si spinge fino alla ricerca affannosa di qualche pietra che secondo i testimoni veniva posta in prossimità dei cadaveri con sopra iscritto il nome del defunto, un gesto per dare un minimo di dignità alla morte.
Da grande documentarista quale è Wang Bing costruisce un lavoro che se oggettivamente presenta l’ostacolo arduo della durata, dall’altro però mostra una linearità e una semplicità formale che lo rendono sicuramente più agile e meno pesante di quanto ci si possa aspettare, anche perché, lavorando soprattutto sul montaggio, le testimonianze sono tutte interessanti e ci aiutano a capire quel frammento di storia in parte dimenticato, in parte cancellato o sopraffatto dagli eventi succedutisi nel paese (quelli furono anche gli anni che videro una terribile carestia che portò alla morte di diversi milioni di cinesi); soprattutto Wang Bing cerca di sottolineare attraverso le testimonianze come il vero colpo mortale per chi viveva nei campi non erano solo la fame e i soprusi subiti, ma la perdita della dignità umana che portava persino a forme di cannibalismo; vivere accanto alla morte ogni giorno, toccarla con mano sul compagno che dorme accanto è  come morire in prima persona, essere morti che camminano e respirano ancora.

Dead Souls non raggiungerà forse le vette più alte della cinematografia di Wang Bing, ma è di certo una delle testimonianze storiche più importanti, più sentite e più tragiche di un piccolo periodo storico di un Paese divenuto ormai grande e progredito che però non ha memoria, e il regista, in più di una occasione, ha tenuto a precisare che il suo lavoro non vuole in alcun modo essere una critica al regime odierno cinese in forma metaforica, bensì una semplice e sentita necessità di colmare un vuoto storico attraverso il quale ridare dignità a migliaia di vittime, cui non può bastare una tardiva riabilitazione come è avvenuto per quasi tutti.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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