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A Taxi Driver - Recensione

Dramma storico coreano condito con la consueta enfasi, A Taxi Driver è lavoro inappuntabile formalmente, ma che non fa nulla per stupire in positivo

Kim Man-seob è un tranquillo tassista di Seoul che da bravo padre di famiglia vedovo ha come obiettivo primario quello di garantire una vita dignitosa alla figlia di 11 anni. Premuroso verso il suo taxi di un bel colore verde tanto quanto lo è verso la figlia, Kim sa essere anche comprensivo con i clienti più in difficoltà, ma quando viene a sapere che c’è uno straniero che cerca un taxi per recarsi a Gwangju pagando una bella cifra, organizza un mezzo imbroglietto per anticipare i colleghi e accaparrarsi l’affare. Quello che Kim non sa è che lo straniero è un reporter tedesco proveniente dal Giappone che vuole recarsi nella città del sud della Corea dove sono in atto dimostrazioni di protesta.
Siamo nel 1980, pochi mesi prima il presidente Park è morto in seguito ad un attentato e da allora grazie ad un golpe silenzioso il Paese è in mano ai militari che hanno imposto il pugno duro sulla Corea con l’alibi di prevenire la minaccia comunista proveniente dal nord. Gwangju è diventata il caposaldo della protesta pilotata da docenti e studenti universitari che trova l’appoggio della popolazione in difesa della democrazia, per tale motivo il reporter tedesco vuole raggiungere la città e documentare la situazione aggirando la censura. Kim, che come tutto il resto della popolazione media coreana al di fuori di Gwangju è totalmente all’oscuro dei fatti che si stanno svolgendo avendo passivamente abbracciato la teoria della minaccia comunista, si troverà quindi ad intraprendere un viaggio avventuroso tra i posti di blocco che chiudono l’accesso alla città.
Il qualunquismo apparente di Kim, mascherato da un disinteresse totale per i temi nazionali in favore del proprio tornaconto personale, inizia a vacillare nel momento in cui si troverà ad assistere ad una delle tragedie storiche più grandi della Corea; in pochi giorni di battaglie nelle strade resteranno uccisi un numero imprecisato di manifestanti (le stime vanno dalle poche centinaia delle fonti ufficiali alle 2000 di quelli ufficiose) e Kim, prendendo coscienza del dramma che sta vivendo la nazione, diventerà un piccolo grande protagonista di quei fatti tragici.
Liberamente ispirato a fatti realmente accaduti, con una certa dose di licenze storiche, A Taxi Driver è insomma un’altra rilettura di quel maggio del 1980 che con gli anni è diventata una data tra le più importanti della storia coreana. Il regista Jang Hun, dapprima assistente alla regia in alcune opere di Kim Ki-duk tra cui Ferro 3, e poi passato in prima persona sulla sedia della regia con Rough Cut cui hanno fatto seguito altre due opere degne di note (Secret Reunion, il suo lavoro migliore, e lo storico-bellico The Front Line), imposta la storia come un racconto filtrato dagli occhi di un semplice rappresentante della popolazione media, di quelli che verso le proteste studentesche provano anche un certo distacco se non proprio disprezzo, nel quale col procedere della storia la coscienza civile emerge e gli permette di vedere e capire quello che un certo egoismo qualunquista impediva di valutare.
Per tutta la storia Jang ha come linea guida la dicotomia tra una popolazione pacifica e generosa ed un potere feroce, e non perde mai occasione per dimostrarlo, quasi a sottolineare, ammesso ce ne fosse bisogno, l’assurdità della repressione militare; questo afflato emozionale che lega tutta la popolazione di Gwangju, anche verso coloro che provengono da altre città e persino da altri paesi, appare francamente un po’ forzata, così come  è forzatissimo un inserto da action movie che vede i tassisti da una parte e la polizia segreta dall’altra.
A Taxi Driver è quindi una lettura di quel maggio del 1980 a Gwangju dalla parte della popolazione inerme, quella di certo non politicizzata ma pronta a schierarsi contro chi spara sui propri connazionali, e in questo la figura di Kim diventa un po’ l’emblema di quella tipologia. Come ogni film coreano ad alto budget, soprattutto ad impronta storica, pensiamo ad esempio a Ode to My Father o al recente The Last Princess, mostra una confezione che rasenta la perfezione, tocca le corde emozionali con una discreta overdose di enfasi, ottiene un successo clamoroso, non solo per l’annata in corso essendosi già piazzato al decimo posto all time in Corea in quanto a presenze e, dulcis in fundo, viene candidato a rappresentare il proprio Paese nella corsa agli Oscar nella categoria dei film in lingua straniera.

Tutto perfetto quindi? Non tutto, a dire il vero: l’impressione è quella di trovarsi davanti ad un lavoro preconfezionato, in cui tutto sta al posto suo ma che non riesce a stupire con qualcosa che lo faccia deragliare dalla sua ricercata pulizia e perfezione formale.
Di certo chi non tradisce mai è Song Kang-ho, all’ennesima prova magistrale, ben affiancato da una serie di facce note tra le quali brilla di certo quella di Yoo Hae-jin nel ruolo di un tassista di Gwangju.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 2.5

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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