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Escape at Dannemora, conclusioni: la fuga e le scelte sbagliate

Cala il sipario sulla miniserie diretta da Ben Stiller che nel 2019 farà, presumibilmente, incetta di premi. La fuga si compie, dopodiché si apre una nuova interessante linea narrativa, ben sostenuta dalla regia, che rende appassionante la visione. Ci sarà una seconda stagione?

Non poteva finire nel migliore dei modi: un bel Golden Globe scintillante nelle mani di Patricia Arquette. La settima e ultima puntata di Escape at Dannemora, infatti, è stata trasmessa lo scorso 8 gennaio, due giorni dopo la vittoria dell'attrice come Miglior attrice in una miniserie o film per la tv nell'ambito premio. Forse nessuno si aspettava questo riconoscimento oppure per qualcuno è anche troppo, considerando che Tilly, il personaggio interpretato dalla Arquette, non è la principale protagonista. I due carcerati in fuga, Matt e David, rispettivamente Benicio del Toro e Paul Dano, sono i protagonisti, eppure il primo personaggio che compare sullo schermo nella puntata pilota è appunto la donna, in lacrime che risponde singhiozzante al suo interrogatorio. Perché il terzetto di sceneggiatori, Brett Johnson, Jerry Stahl e Michael Tolkin, più il regista Ben Stiller, avranno dunque fatto questa scelta? La risposta, forse, è contenuta nella serie e quindi non ci resta che capire come si sono evoluti la storia, i personaggi e la regia di Stiller a seguito delle premesse proposte nell'episodio pilota.

Sì, c'è anche il sesso, ma l'obiettivo è la fuga. A ben guardare, scrivere e dirigere una serie tv su un fatto di cronaca arcinoto, che per di più si basa sui dettagli del rapporto dell'Ispettore generale del Dipartimento della Difesa, è complesso, perché è ovvio che il narrato si debba focalizzare sulla fuga. Fossimo nel cinema, il pubblico, ma un po' tutti, potrebbero pretendere qualcosa in più della cronaca degli eventi, ma nella serialità, campo ancora un po' arroccato sulla pedissequa narrazione di fatti reali, in cui sognare un po' è sempre difficoltoso (ne sa qualcosa Paolo Sorrentino e le critiche piovutegli addosso dai puristi della serialità per The Young Pope), bisogna essere ligi. Eppure in questa fermezza narrativa la scrittura e la regia della nostra miniserie ha provato a mescolare le carte. Effettivamente fino alla quarta puntata è solo una questione di sesso, come proposto nel pilota. Prima David Sweat e poi Richard Matt sembrano provarci gusto nel soddisfare sessualmente Tilly. I due si alternano in questo gioco di seduzione. Dopo l'allontanamento del giovane dalla sartoria, infatti, a seguito di una denuncia anonima arrivata al direttore del carcere sullo strano rapporto intessuto tra lui e la donna, il posto nel retro del magazzino insieme alla moglie fedifraga è preso da Richard che non fa molta difficoltà a convincerla. La caratterizzazione di quest'ultimo personaggio, infatti, è davvero ben scritta. L'uomo risulta seducente e ammaliante: lui questo lo sa e infatti da Tilly a David, passando per Gene (David Morse), il secondino che soddisfa ogni sua richiesta, sono nelle sue mani. Matt convince Tilly a procuragli una lima e allo stesso tempo incita il suo compagno di carcere a scavare, incunearsi, passare dentro tubi dell'aria calda spenti, sfondare muri portanti di 2 m di spessore, per disegnare il percorso di fuga. Il 5 giugno, che corrisponde al quinto episodio, finalmente questa si avvera. I due carcerati diventano, così, degli evasi che camminano per strada, fumando di gran gusto una sigaretta. Il fatto è compiuto, ma la narrazione continua sul solco di in una precisa linea narrativa che tiene alta la tensione e l'interesse del pubblico. L'episodio sei, infatti, fa un passo indietro e mostra gli antefatti di vita: i crimini commessi da Sweat e Matt e come, quando e soprattutto 'perché' la donna incontra Lyle (Eric Lange), ponendo in evidenza la loro vera natura. La settima puntata, invece, si focalizza sulle indagini dopo la fuga, sulla rincorsa dei due galeotti al confine con il Canada e sull'arresto di Tilly, riallacciandosi così all'episodio pilota. L'elemento narrativo cardine è, quindi, la fuga e successivamente il destino che attanaglia i tre personaggi profondamente uguali tra loro, accomunati dalla stessa capacità di compiere sempre pessime scelte, come racconta lo sguardo di Dano-Sweat nell'ultimo fotogramma della puntata (che prelude a un'ipotetica seconda stagione).

Non tre storie, ma una sola storia. La conseguenza narrativa della fuga è, perciò, raccontare i pessimi profili dei tre personaggi. La scelta di scrittura e regia di passare tra passato e presente per mostrare i loro errori, permette di capire meglio le personalità di Richard, David e Tilly e interrompere il ponte empatico che fino al quinto episodio cresceva senza freni. Fino a quando, infatti, Escape at Dannemora è una miniserie che racconta di una fuga dal carcere, i due galeotti sembrano eroi. Appena evasi, camminando per strada di notte, sporchi e sudati, mentre strozzano in gola con gioia un "F**k" e si gustano la sigaretta della libertà, hanno conquistato il pubblico, perché ce l'hanno fatta. È sempre Tilly a ricordare, però, la loro vera natura. Le tre linee narrative proposte nella puntata pilota, una per personaggio, quindi, si intrecciano in una sola linea: la rispettiva capacità di infilarsi in situazioni sbagliate, come afferma la donna al marito nell'episodio sette. Lei, infatti, si definisce un'egoista, senza empatia, che pensa solo al proprio tornaconto e non al male che sta facendo a se stessa, a Lyle e ai due carcerati, aiutandoli. Dal canto suo Richard Matt, denominato 'Hacksaw' (seghetto a mano) non è uno stinco di santo. Oltre al soprannome dato per un preciso motivo, è uno che non si fa scrupoli nell'uccidere e passare sopra ai cadaveri. Infine di cattive scelte ne è preda anche David Sweat che, seppur non abbia del tutto voluto commettere il crimine che l'ha portato in carcere, ormai è stato risucchiato in una spirale di male da cui non riesce a uscire, e pare non voglia farlo. Come per Del Toro anche Dano e soprattutto la Arquette sono davvero convincenti nell'esprimere queste sfaccettature dei loro personaggi, usando quasi esclusivamente la propria faccia. Stiller difficilmente si stacca dai loro volti e le parole da loro pronunciate sono poche e sibilate, perché agiscono d'istinto.

Ben Stiller ha le idee chiare. Tutto quanto sin qui posto in evidenza e visto nella serie tv, è principalmente merito di Ben Stiller. La sua regia del pilota molto ampia e strutturata in campi e controcampi sui volti, si conferma fino alla quarta puntata. Rimane anche la rete metallica del carcere in diaframma tra i visi e la camera, perché il focus narrativo è l'evasione, come detto. Anzi il regista ruba dal cinema l'utilizzo di un montaggio di inquadrature in cui David scava, martella, sfonda muri con una musica di sottofondo a unire. La quinta puntata però, è storia a sé ed è così anche grazie alla scelta del regista. La p'episodio inizia con un lungo piano sequenza che segue il giovane carcerato nel percorso di fuga, così da dare le coordinate del tema della puntata a chi guarda. Questa scelta stilistica, infatti, si ripete per tutto l'episodio, proprio per dare quell'idea di uscita, di fuga, di passaggio da un punto all'altro. Dalla puntata successiva fino all'ultima la regia cambia ancora. Nella sesta è inquadrata da una fotografia scura e tetra, per imarcare il tema dell'episodio, mentre nell'ultima si incolla nuovamente ai visi dei tre protagonisti, senza dare troppo spazio a ciò che sta attorno. Si vedono, pertanto, Matt e Sweat nella loro rincorsa alla libertà, ma per Stiller non è importante il luogo, ma loro due, perché le loro nature, come detto, sono l'evoluzione del tema principale.

Insomma Escape at Dannemora ha una fisionomia stilistica e narrativa perfettamente combaciante e punte di sorpresa, funzionali alla soluzione finale. E Tilly? Tilly è il vero fil rouge della miniserie. Attraverso di lei, grazie a lei, e per lei è stata girata Escape at Dannemora.





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Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

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