Venezia 80, giorno 3: cronache di cinema e non solo
- Scritto da Davide Parpinel
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Bentrovati cari lettori di LinkinMovies.it. Oggi si è consumato il terzo giorno di Venezia 80 e non è partito proprio benissimo. Lo sappiamo, abbiamo promesso di non parlarne, ma non possiamo non fare un breve accenno: parliamo delle prenotazioni dei posti in sala. Non solo un sistema di prenotazione, ma delle vere e proprie Forche Caudine a cui ogni accreditato deve sottostare. Stamattina alle 6.30 ci siamo messi virtualmente in coda, per poi, alle 7 circa, cercare di prenotare le visioni di lunedì, martedì e mercoledì. Stava andando tutto bene, avevamo bloccato tutti i film che volevamo, avevamo le lacrime di gioia che ci sgorgavano copiose dai nostri occhi. Finalmente ce l’abbiamo fatto, è andata tutto bene! Premiamo, quindi, il pulsante “Conferma le tue prenotazioni”, ma il sistema ci ha sbattuto fuori. E all’altezza dello stomaco abbiamo sentito un «Buongiorno!». Era l’ulcera. Successivamente, ma solo dopo numerose imprecazioni e lodi divine, sconfortati e distrutti, siamo entrati di nuovo e siamo riusciti a prenotare non tutti i film che volevamo. Abbiamo dovuto prendere altre scelte anche a causa delle sovrapposizioni di orario nelle visioni. Aaahhh! Vivaticket e La Biennale, quante maledizioni vi state attirando!
Le sorprese non sono finite. Giunti verso le 9 in sala stampa, l’abbiamo trovata stranamente molto popolata, ma davvero molto. L’occasione è stata la masterclass o conversazione di Damien Chazelle e del suo amico/musicista Justin Hurwitz dal titolo “The Art and the Craft of Cinema” Mastercalss Cartier. Ci ha colto di sorpresa non solo la folla, ma anche la voce del regista e del musicista che hanno raccontato ideazione e genesi dei loro film, ascoltando appunto i più significativi passi delle musiche. Un po’ infastiditi per tutta la questione, anche con un po’ di spocchia, lo ammettiamo, non abbiamo seguito la conversazione e abbiamo preferito passeggiare per il Lido, vedere le facce che lo popolano, notare la pazienza infinita dei giovani che si incollano al parapetto che li divide dal tappeto rosso in attesa della sera e dei loro divi. Abbiamo respirato un po’ di Mostra del Cinema.
Per la sezione “Torniamo per un attimo a ieri” non abbiamo nulla da segnalarvi. Le proiezioni ufficiali dei film in concorso Ferrari, El Conde e Dogman sono scivolavate senza intoppi con il solito corteo di ospiti attesi o non attesi. Oggi, inoltre, in queste cronache non troverete nemmeno lo spazio “Scoperte dal Lido” perché abbiamo visto due film del concorso e seguito un’altra masterclass (quante masterclass quest’anno, è una Mostra di masterclass!). Quindi, non resta che scoprire i film.
E il cinema? Eccolo! Quando nella quinta puntata del nostro podcast, La Luce del Cinema, abbiamo parlato della luce di Yorgos Lanthimos, abbiamo detto che il suo è un cinema del dolore, disturbante, massacrante per la psiche perché non si sa mai fino a dove possa arrivare, stilisticamente raffinato, forse troppo ridondante nelle ultime produzioni, ma pur sempre doloroso in cui i suoi personaggi cercano la fuga, ma si trovano feriti, colpiti dalla società che li attornia, in grado esclusivamente di educare alla mancanza di rispetto. Per tutte queste motivazioni, il cinema di Lanthimos è una luce tragica, ma acuta che affonda le sue radici nel reale, nel vivo, nella verità. Poor Things, titolo italiano Povere creature, affonda le sue radici esattamente in queste parole. Il regista greco prosegue nella sua analisi delle bassezze umane e dell’uomo contro uomo, raccontando di una donna, Bella Baxter, Emma Stone, a cui è stato inserito dopo la morte il cervello di un feto, quello che stava portando nella sua pancia. Grazie alla libertà che gli ha concesso il suo creatore, una sorta di dr. Frankenstein, il dr. God Baxter, Willem Dafoe, Bella cresce e si emancipa attraverso le scoperte da lei stessa compiute con dolore e con gioia. Scopre il mondo, se stessa e l’uomo, inteso come essere umano maschile e tutte le sue sfaccettature di pensiero (poche) e di azione (altrettanto poche perché pensa solo al piacere sessuale). La giovane protagonista come il Candido di Voltaire, conosce e acquisisce fino a diventare consapevole e qui si compie la rivoluzione di Lanthimos. Quelle donne che nei suoi film hanno spesso subito la violenza e la prevaricazione del maschio, nei panni della ingenua Bella, escono dalla casa di Dogtooth, dall’albergo di The Lobster, dal castello della Regina d’Inghilterra in La Favorita, ossia i luoghi della loro segregazione, e si affermano, conquistano con la logica, l’istruzione, la pazienza, il proprio corpo, la propria libertà e la definitiva emancipazione. Questa è la parola di Bella. Il suo tragitto è una naturale risposta alla violenza e alle ferite inflitte da quasi tutti gli uomini, tranne che dal vecchio God, deforme e malato, il quale, proprio perché creatore scientifico, concepisce solo la scienza e quindi il riscontro, la verifica e la deduzione di un fatto. Il regista greco getta, così, una luce molto forte sul presente, senza allegorie, ma passando dall’interpretazione, davvero convincente dell’attrice americana, che si assume tra ironia, battute, ingenuità e disincanto il percorso di crescita della donna protagonista. Il film è, pertanto, una costruzione continua i cui mattoni sono svelati passo dopo passo dal regista. Stilisticamente siamo arrivati allo stile Lanthimos spinto all’ennesima potenza; però, al contrario magari di quanto visto ne La Favorita, sia l’uso del grandangolo, come del fish-eye, come delle scenografie psicopaticamente curate, sono tutti elementi più al servizio della narrazione, come anche il finto bianco/nero. Il linguaggio si piega così al sogno, all’impossibile e indicibile da vedere, al senso stesso del film. Mark Ruffalo è altrettanto straordinario nelle vesti del bilanciamento comico dell’ingenuità di Bella. Interpreta un avvocato che approfitta della giovane, ma nel farlo le concede la libertà e la sua caratterizzazione di uomo sconfitto, piagnucoloso e bambinone che vede solo il possesso, è uno dei valori aggiunti di Poor Things.
Poi c’è El Conde. Il conte Dracula nei panni del generalissimo Pinochet che azzanna il collo, beve il sangue si fa un frullato con i cuori estratti dalle vittime. In realtà nella nuova pellicola di Pablo Larraín, presente nel concorso di Venezia 80, c’è ben poco da ridere, anzi c’è molto da rimanere scioccati, perché come in tutta la filmografia del cileno, anche questo film parla della Storia della sua terra, degli orrori, degli inganni, dei magheggi del dittatore, declamati con assoluta chiarezza. Anche quando la suora, interpretata da Paula Luchsinger, che si deve occupare della stima economica dell’immenso patrimonio del generalissimo, declama con il sorriso sulle labbra le truffe e i raggiri economici perpetrati dalla famiglia Pinochet e le riposte dei vari membri sono pervasi da risatine ironiche, anche in queste scene il pubblico percepisce il gelo nel sangue. Tutto è detto con assoluta chiarezza e scandito nei dettagli. Come ha potuto commettere tutto questo Pinochet anche dopo la sua deposizione da dittatore? Questa sembra la domanda che pone Larraín a chi guarda e la cui risposta è: «Chissà, eppure è andata così!». El Conde comunque non è un film drammatico, né un film allegoricamente ironico, ma è una farsa, una fiaba amara che mette in risalto tutti i punti centrali del cinema del regista cileno: la Storia come elemento cardine della vita di oggi; il ricordo; il rapporto con il Potere; la pressione che crea un personaggio come Pinochet nel popolo e soprattutto la non voluta empatia tra pubblico e personaggi. Anche quando il Pinochet vampiro, che non è interpretato da Alfredo Castro come abbiamo scritto erroneamente nelle cronache di ieri, sorvola il Cile sospinto dalla Primavera di Vivaldi e squarcia il petto delle sue vittime per mangiarne avidamente il cuore o quando, appunto, si fa un frullato di sangue e cuore, non c’è da ridere, perché il sorriso è subito smontato nel montaggio dagli orrori. Insomma, El Conde è il film di Larraín che ti aspetti. Torna a parlare del suo Cile, dopo la parentesi Spencer, dimostrando che quest’ultimo film come Jackie sono da considerarsi dei film a sé stanti. Torna alla sua nazione, ne ripercorre la Storia, e suggella una parte della filmografia, parlando del grande mostro, del nemico più orrendo del Cile, Augusto Pinochet, che era parte fondamentale, seppur laterale, di tutti i suoi film. Ieri in conferenza stampa Alfredo Castro, che qui interpreta il maggiordomo vampiro desideroso di sangue e fedelissimo del generale, aveva parlato di originalità nel definire questo film, possiamo dire di essere perfettamente d’accordo. Larraín inventa e si diverte a giocare con il cinema, per ricordare il grande non rimosso del Cile, il golpe di Pinochet, di cui quest’anno ricorrono cinquant’anni.
La voce della sala stampa. Nella folta serie di masterclass e/o incontri che costellano questa Mostra del Cinema 2023, abbiamo seguito la chiacchiera con Nicholas Winding Refn, moderata da Manlio Gomarasca, sul cinema di Ruggero Deodato, scomparso a dicembre 2022. Premessa: Refn ormai è un punto fisso di Venezia. Per un motivo o per l’altro è sempre al Lido o in veste di regista o di esperto del cinema di genere. Altra premessa: sempre Refn quando non parla di una sua opera, non presenta un suo film, è molto meno protagonista, fa meno show, meno circo, diciamo. In questa chiacchiera è stato serio, focalizzato, si è lasciato andare davvero poco e ha parlato a ruota libera. Se non fosse che conosciamo abbastanza il personaggio Refn, possiamo quasi dire che aveva un’aria timida e dimessa, ma forse esageriamo. Altra premessa, l’ultima. Nel concorso di Venezia Classici è presente Ultimo mondo cannibale di Deodato la cui proiezione di mezzanotte di venerdì 1 settembre è introdotta appunto da Refn. Finalmente parliamo della masterclass. Il regista danese ha messo in evidenza come il cinema di Deodato è stato un cinema politico e impegnato. I registi della sua generazione erano tutti artisticamente impegnati e producevano il cinema per essere visto. All’epoca dei suoi film, infatti prosegue Refn, si andava la cinema per la voglia di andarci; non c’era l’ossessione della definizione, ma era solo cinema. Per quanto riguarda Ultimo mondo cannibale, il regista danese ha affermato che è un film estremo e unico. È un pezzo da museo che contiene molti passaggi di cinema che sono stati poi ripresi da moltissime altre pellicole. Ciò è stato possibile, ha ribadito anche Gomarasca, perché Deodato aveva libertà di esprimersi, era un inventore di cinema che faceva i film che lui stesso voleva vedere. In questi c’era la consapevolezza politica, l’azione, la poesia, una grande musica, cosa impensabile oggi, dice Refn, perché nella contemporaneità c’è molto più controllo produttivo nei film. Grazie al cinema di Deodato, ha aggiunto, il futuro è apparso più chiaro, perché conoscere il passato, permette una maggiore visione su ciò che sarà. Poi la conversazione, o masterclass, si è focalizzata prima su Refn che ha parlato della sua giovinezza a New York, dei genitori socialisti, che guardava molta televisione, anzi la ama, che è dislessico e daltonico; successivamente Gomarasca gli ha chiesto il suo rapporto con il cinema di alcuni suoi maestri come Radley Metzger, Andy Milligan e dell’incontro avuto con Tobe Hooper a dir poco traumatico a detta di Refn. Successivamente, anche spinto dalle domande dei presenti, il regista ha parlato di intelligenza artificiale e di come questa metta in crisi il concetto di creatività, del futuro del cinema e di cosa significherà fare cinema nel futuro.
Domani si entra nel vivo del fine settimana e il pubblico della Mostra, se sarà come gli altri anni, esploderà. Domani arriva anche Tony Leung, il Leone d’oro alla sua splendida e fulgida carriera di attore. A domani!
Crediti fotografici.
Foto 1, photocall Poor things, director Yorgos Lanthimos (Credits Giorgio Zucchiatti La Biennale di Venezia - Foto ASAC) (5)
Foto 3, actress Emma Stone, Poor things (3)
Foto 4, El Conde, actor Jamie Vadell (Credits Netflix)
Davide Parpinel
Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.