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Asian Film Festival 2014: la fine

Resoconto finale della 12esima edizione della rassegna di Reggio Emilia: uno sguardo ai film vincitori e agli ultimi titoli presentati

Finisce con l’ultima fatica di Hong Sang-soo, il set di novità proposte dalla XII edizione dell’Asian Film Festival. Our Sunhi è un’altra delle variazioni sul tema ‘scuola di cinema e relazioni tra sessi’ che da diverso tempo costituisce il background di quasi tutte le opere del regista coreano. Suhni (la musa Jung Yoo-mi, già presente in Another Country e Oki’s Movie) è un’ex studentessa della scuola di regia a Seoul. Dopo un’assenza di due anni torna al luogo dei suoi studi per chiedere una lettera di raccomandazione per l’estero a un suo professore. La sua venuta risveglierà desideri repressi, rimpianti di ex amanti e molte, molte sedute alcoliche per tutti. La commedia è tutta qui: semplice e volutamente dimessa nella realizzazione. Se non fosse per l’uso desueto dello zoom che, nelle mani di un regista navigato come lui, fa snob, sembrerebbe il lavoro di un principiante. Però funziona. E benissimo. Dietro l’apparenza fragile ci sono pensiero e scrittura solidissimi, quasi filosofici, nell’erigere a protagoniste le relazioni, le intersezioni tra i caratteri, più che le loro peculiarità.

A introduzione della proiezione, la Presidente di Palazzo Magnani Avde Iris Giglioli con l’encomiabile Graziano Montanini, hanno salutato il pubblico decretando il vincitore dell’opera più gradita e votata dagli spettatori del Festival: Zone Pro Site del taiwanese Chen Yu-hsun. Premio meritatissimo, per una volta, al film sicuramente più divertente e originale della rassegna: pop, demenziale, romantico e, soprattutto… gastronomico. In una gara per decretare il miglior cuoco taiwanese, tre grandi scuole si fronteggiano. L’ultima esponente di una di queste dovrà imparare, suo malgrado, l’arte del padre scomparso e scoprire qualcosa di più su di sé, sulla vita e sull’amore. Questa sorprendente commedia di oltre due ore è pressoché perfetta. Gli intrecci, le gag, le storie parallele, le canzoni, grazie a una regia scoppiettante, corrono a una velocità tale che è impossibile avvertire noia o stanchezza. Si possono solo sgranare gli occhi ed entrare in quel mondo magico, come da bambini nelle pellicole d’avventura. Speriamo che qualche nostro distributore lo veda e lo proponga, anche solo per riempire il palinsesto di Rai 4 o Iris, dando modo a tutti di divertirsi, per una volta, con candore e intelligenza.
Non altrettanto divertente è il secondo classificato: A Time in Quchi di Chang Tso-chi. Film con bambini che niente aggiunge al genere, già abbondantemente sfruttato da tutte le cinematografie mondiali, da I 400 colpi di François Truffaut, modello irraggiungibile, a Nobody’s Knows di Hirokazu Koreeda o al suo più recente Father and Son. C’è un ragazzino, ci sono i genitori distanti, un nonno da cui trascorrere l’estate, il contrasto campagna-città, la crescita, l’amicizia, un lutto, la sua elaborazione. Delicato, bravi interpreti, regia puntuale ma il chissenefrega incombe come un temporale e rovina la visione.
Leggermente più interessante è il terzo classificato: Ripples of Desire della regista taiwanese Zero Chou. Storia di due sorelle cortigiane, della seduzione di un ricco signorotto grazie alle arti della più scaltra, di un finto rapimento inscenato con l’aiuto del capo bucaniere (il sempre intenso Simon Yam), della malattia contratta dalla più mansueta e del suo allontanamento dalla casa di piacere che le ospita. Interessante perché, anzitutto, è il primo film non a tematiche gay dell’autrice, poi perché parla di pirati e infine perché… non è vero: la vicenda narrata, in realtà, fa dell’omosessualità la lebbra che repelle la madre maitresse clitemnestrica (una spaesata Sandra Ng); il pirata è un padre la cui essenza è l’assenza; la sorella con cui condividerà la lebbra è, ovviamente, l’amante. Psicanalisi da salotto ma confortata da una trama labile e nella quale la componente ‘avventura’, fondante per un’opera che vorrebbe essere di genere, è assente. L’intreccio di sentimenti e ambiguità che i personaggi descritti mettono in scena, divora la pur suggestiva ambientazione lasciando in piedi, come in uno psicodramma, solo le loro anime dolenti e disincarnate.

Senza riconoscimenti gli altri due lavori visionati negli ultimi tre giorni: Poor Folk di Midi Z e Backwater del giapponese Shinji Aoyama. Il primo, taiwanese, è il classico prodotto ‘da festival’ come se ne vede uno quasi ogni anno qui o al FEFF di Udine: storia di degrado umano e sociale, dove la povertà costringe le persone a comportamenti che dovrebbero colpire le coscienze (in questo caso c’è la vendita di una ragazza adolescente a dei papponi). Molta camera a mano. Location squallide. Attori spesso presi dalla strada. Già dimenticato.
Il secondo, meno scontato, è il viaggio del giovane Toma alla scoperta della propria identità, nel confronto\scontro con un padre sadico e dalla sessualità violenta. La madre, che ha perso un braccio durante la guerra, vive separata da loro e sarà lei a risolvere violentemente il destino edipico del figlio che, seppure traslato nella matrigna, finirà comunque per inverarsi.
Pur non mancando di pregio, nella scelta dei personaggi, nella direzione e nella capacità di creare fascino da una morbosità violenta, il film risente molto, nella sceneggiatura, dell’origine letteraria della storia. Spesso le situazioni sono artificiose e la forzatura si vede. La mano meccanica della madre, stile Freddy Krueger, è una pistola carica che aspetta solo di sparare. L’incontro tra il brutale padre e la fidanzata di Toma non può finire che in violenza carnale. La misteriosa puttana al balcone dovrà incontrarsi per forza col ragazzo. Non conosco il racconto di Shinya Tanaka, da cui è tratto, ma forse una più libera interpretazione del testo, asciutta e meno didascalica, avrebbe reso più ‘disturbante’ il dramma che, così com’è stato raccontato, non riesce a incidere come potrebbe.

Si concludono così questa cronaca e questa edizione un po’ ridotta dell’Asian Film Festival, con l’augurio di tutti gli appassionati che il direttore, AntonioTermenini, torni a presentare, l’anno prossimo, un nuovo appuntamento più ricco e articolato e che questa mania dell’economia come scuola di pensiero, passi di moda una volta per sempre.

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