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Venezia 76, promossi e bocciati: guida ai film

I giudizi a tutti i film visionati dai nostri inviati nelle varie sezioni della Mostra del Cinema di Venezia 2019. Appunti critici di un'avventura dello sguardo lunga 11 giorni. A cura di Fabio Canessa, Davide Parpinel, Simone Tricarico, Francesco Siciliano





Venezia 76 - In concorso

The Truth (La vérité), di Hirokazu Koreeda (Francia, Giappone)



I registi asiatici in Occidente non hanno quasi mai lasciato il segno. Fuori dai confini nazionali hanno realizzato film che spesso risultano i più deboli della loro filmografia. Il maestro giapponese Hirokazu Koreeda, in trasferta in Francia, si potrebbe dire non conferma né smentisce questa ‘verità’. The Truth non è certo un film brutto, ma non trova posto nei migliori lavori dell’autore che l’anno scorso ha vinto la Palma d’Oro a Cannes con Un affare di famiglia. Ed è ancora la famiglia, come tante volte nel suo cinema, il tema centrale. In particolare il rapporto tra madre, diva del cinema francese interpretata da un’autentica diva come Catherine Deneuve, e figlia, sceneggiatrice con marito americano (ruolo di contorno per Ethan Hawke) che ha il volto di un’altra grande attrice transalpina come Juliette Binoche. E il film costruito su di loro è molto francese (e poco giapponese nonostante il regista nipponico). Più primi piani e meno campo medi, inquadrature mai tenute fisse a lungo, tanti dialoghi spesso brillanti che spingono la storia sul terreno della commedia. Si perde la naturalezza del miglior cinema di Koreeda in un film che d’altronde è anche sul cinema, il regno della finzione, e sul limite tra bugia e verità nell’equilibrio delle relazioni. (Fabio Canessa)

Ad Astra, di James Gray (Stati Uniti, Brasile, Cina)



Fantascienza esistenziale e spettacolare, autoriale ma con occhio al grande pubblico. L’equilibrio è difficile e James Gray non lo trova. Il progetto, ambizioso, collassa su un terreno ibrido, superficiale, da finto minimalismo. Delude così il regista nella sua sfida al genere, diventato abbastanza di moda negli ultimi anni. Molte soluzioni visive sanno di déjà-vu, a cominciare dall’inflazionata soggettiva dell’astronauta nei momenti di maggior pericolo, per non parlare dell’affidarsi alla forza del sonoro come elemento capace di tenere attaccato alla poltrona lo spettatore. Ridicole poi certe trovate, vero che si parla di fantascienza, ma cose tipo intrufolarsi in un razzo in partenza o l’utilizzo di una lastra d’acciaio come scudo contro piccole meteoriti lasciano esterrefatti, e alla fine risulta poco convincente anche il ritratto esistenzialista costruito sul volto monoespressivo e la voce fuori campo (in stile Malick , ma senza la medesima sinergia spirituale tra parole e flusso di immagini) del protagonista Brad Pitt. Restano, sfiorate, domande e tematiche interessanti come solitudine e ossessione che la fantascienza riesce a  stimolare meglio di altri generi. (Fabio Canessa)


Storia di un matrimonio (Marriage Story), di Noah Baumbach (Stati Uniti)



Cinema di personaggi, perfetto per esaltare gli interpreti grazie a sceneggiature orchestrate in modo impeccabile, tra sincera naturalezza e artificiosa brillantezza. Baumbach si conferma autore raffinato, di quelli capaci di tirare fuori il meglio dagli attori. Adam Driver e Scarlett Johansson ne sono un chiaro esempio in questo film, una storia d’amore raccontata attraverso l'angolazione del divorzio. Un matrimonio che va a pezzi, tra incomprensioni e bisogno di autoaffermazione. Da che parte stare? Nessuna o tutte e due. Perché nel racconto le rispettive responsabilità sembrano bilanciarsi. E quel che conta è altro. La ricerca della possibilità che una famiglia resti vicina, per il bene dei figli ma anche nel ricordo di un amore che non può essere cancellato semplicemente firmando  una separazione, in una situazione complicata come quella del divorzio gestita da un sistema legale (evidente qui la critica) che isola e divide. Un ritratto commovente e in diversi passaggi anche divertente per come ondeggia tra dramma e commedia, realismo e visione caricaturale.  Tra le scene da ricordare un vibrante litigio della coppia e il finale che chiude perfettamente il cerchio del racconto. (Fabio Canessa)

J’accuse, di Roman Polanski (Francia, Italia)



Lezione di storia e lezione di cinema. Maestro d’eccezione Roman Polanski che racconta l’affaire Dreyfus, “una storia che tutti conoscono ma senza conoscerla veramente” per usare le parole in conferenza stampa di Louis Garrel. È lui l’ufficiale di origine ebraica (e l’antisemitismo non è un dettaglio), accusato ingiustamente di aver passato informazioni ai tedeschi, degradato (magnifica la scena iniziale che mostra quel momento) e spedito per anni sull’Isola del Diavolo prima che le indagini del nuovo capo dell’unità di controspionaggio Picquart, il protagonista Jean Dujardin, riaprano tra molte difficoltà il caso esploso poi con il celebre articolo J’accuse firmato da Emile Zola. Con evidente attenzione ai dettagli, un grande lavoro scenografico, uno spessore formale degno della sua carriera, Polanski ricostruisce i fatti di fine Ottocento traducendoli in una dimensione narrativa avvincente come un giallo-thriller politico, con rigore ed eleganza visiva e dialoghi che fuggono dalla facile retorica. Un inno alla ricerca, senza paura, della verità. Ieri come oggi spesso minacciata nel nome di ambigui interessi nazionali. (Fabio Canessa)

Joker, di Todd Phillips (Stati Uniti)



A onor del vero, non ci è piaciuto. Per capire perché, bisogna scindere due fattori: da un lato c’è la regia e la sceneggiatura scritta di Todd Phillips, dall’altro lato ci sono Joaquin Phoenix e Robert De Niro.
Primo punto. Questo Joker è un continuo e lunghissimo climax ascendente di attesa di qualcosa. Nella lenta consapevolezza di Arthur Fleck del suo status quo (un reietto, un emarginato, un malato, un pazzo che sopravvive in una società in distruzione) Phillips costruisce il suo film aggiungendo scene su scene in cui il messaggio appare confuso (è un eroe anarchico? È un uomo che cerca la sua vittoria personale?). Per circa 2/3 il film propone, quindi, espedienti narrativi per spiegare non è chiaro cosa, poi esplode senza troppa originalità in un finale già scritto nei primi minuti del film. Attorno a questa narrazione si presentano la musica ad altissimo volume, che aiuta solo l’interpretazione di Phoenix, e un larghissimo utilizzo dello slow motion. Poi dei primissimi piani e poco altro: ecco servita la regia di Phillips e la storia del suo Joker.
Secondo punto. Phoenix e De Niro. C’è poco da dire. Il primo è l’unico elemento che permette la poco evoluzione della storia. La caratterizzazione del suo Joker è nuova. È sporca, schizofrenica, fastidiosa, perché troppo malata, e molto negativa; nonostante però tutto ciò, questo Joker empatizza con il pubblico, perché Phoenix lo rende umano, anche se il film stenta a riconoscere questa idea. Poi De Niro, che per il suo personaggio di un famoso conduttore televisivo strizza l’occhio al Jerry Lewis di Re per una notte, vorrebbe dare un po’ di peso alla storia, anche se si rivela solo parte di un sistema che non vuole vedere la realtà.
Il Joker di Todd Phillips è questo è poco altro. La sensazione è che nemmeno il regista sapesse cosa voler fare e si è affidato alle interpretazione degli attori.
Due stelle per lo show spocchioso e arrogantello di Phoenix che ha strappato molte risate in conferenza stampa. Al contrario di quanto fece nel 2012 con The Master, qui almeno qualche parola sul film l’ha detta. (Davide Parpinel)

Ema, di Pablo Larraín (Cile)



Dopo la parentesi americana di Jackie, Pablo Larraín torna a Venezia con Ema, dramma grottesco che indaga le moderne relazioni affettive, portando all'interno della famiglia il tema della disfunzione (non solo psicotica) già presente in molte sue pellicole. Il regista sembra aver completato un percorso che ora gli permette finalmente di raccontare storie ambientate nel Cile moderno, abbandonando il mondo delle derive del potere e concentrandosi sui giochi di forza che caratterizzano la sfera personale. Con un ritmo insolito ma discontinuo, il cineasta descrive una società frammentata che cerca di costruire la propria stabilità emotiva attraverso legami nuovi e non convenzionali, ma la scrittura appare troppo didascalica e compiaciuta per risultare autentica e coinvolgente. Larraín sembra essere meno incisivo del solito nello scavare all'interno dei suoi personaggi, nonostante la carica visiva delle immagini e le debolezze umane dei protagonisti che mette in scena. (Simone Tricarico)

Wasp Network, di Olivier Assayas (Francia, Spagna, Belgio, Brasile)



Non si direbbe un film di Assayas (per citare un altro regista in concorso  a vederlo può fare venire in mente Soderbergh). O forse il presupposto è sbagliato, non bisogna mai stupirsi di fronte a un nuovo lavoro dell’autore francese a cui piace cambiare ed essere imprevedibile. Ecco così una storia di spionaggio, ambientata negli anni Novanta, con protagonisti agenti dei servizi segreti cubani infiltrati in gruppi anti Fidel Castro appoggiati più o meno direttamente dagli Stati Uniti. Bugie, doppiogiochismo, attentati riusciti e sventati. Succedono molte cose nel film, ispirato ad avvenimenti e personaggi realmente esistiti e sviluppato con una struttura narrativa avvincente dove il thriller politico offusca però in parte l’interessante lato intimo, il rapporto di coppia messo a dura prova dal sacrificio per il bene del Paese. Un pezzo di storia recente poco conosciuta, con alcune riflessioni sull’oggi (come il dovere di salvare i profughi in mare) e ritmo da film hollywoodiano senza però, per fortuna, picchi di retorica tipici del cinema americano. (Fabio Canessa)

No.7 Cherry Lane, di Yonfan (Hong Kong, Cina)



Melodramma, sfondo storico, eleganza, memoria. Il cinema di Yonfan è soprattutto questo. Basta pensare al suo film precedente, Prince of Tears, presentato dieci anni fa a proprio alla Mostra di Venezia. Il mezzo però qua cambia e non è un dettaglio da poco. L’animazione è movimento nella sua essenza e la scelta di un linguaggio elementare da questo punto di vista un po’ stranisce pur evidentemente legata anche a un elogio della lentezza, come elemento caratterizzante la raffinatezza, espresso dal e nel film. Manca di forza visiva, alcuni momenti onirici provano a spingere su questa direzione ma finiscono solo per appesantire la visione, e si appoggia sulle parole. Come fosse un romanzo tutto è descritto, anche quello che si vede, in modo dettagliato da una insistente voce fuori campo. Il riferimento a Proust non è un caso, il triangolo amoroso (madre, figlia e suo giovane insegnante di inglese) raccontato come una ricerca del tempo perduto. In una Hong Kong di 50 anni fa, ricordata con nostalgia e un estetismo un po’ stucchevole. (Fabio Canessa)

The Laundromat, di Steven Soderbergh (Stati Uniti)



Grande cast non vuol dire necessariamente grande film. Certo è un piacere vedere all’opera magnifici attori come Gary Oldman e la regina della recitazione Meryl Streep, impegnata qui in un doppio ruolo. Ma non basta. Soderbergh decide di affrontare lo scandalo finanziario dei Panama Papers affidandosi all’umorismo, portando la denuncia su toni grotteschi. Come si capisce già dal curioso incipit con Oldman e Banderas, nei panni dei famigerati consulenti Mossack & Fonseca, che parlano in camera allo spettatore. L’idea sarebbe anche buona, ma si perde tutta la tensione drammatica di una vicenda con tanti lati oscuri. I dialoghi fittissimi, serrati, paradossalmente tolgono ritmo alla narrazione. Stancano. Fortunatamente la narrazione si apre a più personaggi, con un paio di storie che vanno oltre quella di partenza innescata dall'indagine di una vedova, in seguito a un tragico incidente, su una fantomatica compagnia assicurativa. In particolare, merita l’episodio su una ricca famiglia di colore dove anche i tradimenti si coprono con accordi di passaggi di società per azioni. (Fabio Canessa)

Martin Eden, di Pietro Marcello (Italia, Francia, Germania)



Liberamente ispirato al romanzo di Jack London, il film di Pietro Marcello propone una rilettura abbastanza superficiale e didascalica dell'opera omonima, spostando l'azione in una Napoli quasi fuori dal tempo, in cui il susseguirsi degli avvenimenti sembra seguire una non linearità che sospende volutamente qualsiasi esigenza di adesione alla realtà. Ma questa scelta molto evocativa finisce, paradossalmente, per impoverire la narrazione, che risulta troppo banale per coinvolgere realmente, prigioniera fra l'altro di stereotipi ingenui che poco si adattano alla figura del protagonista. Nonostante il fascino e la bravura, Luca Marinelli rimane sostanzialmente prigioniero del proprio ruolo, quasi schiacciato dal peso di un'interpretazione che non riesce a risultare totalmente autentica. La regia di Marcello mescola temi e soluzioni visive alternando in maniera abile immagini e musica, ma la sensazione è che in un questo caleidoscopico racconto qualcosa vada perso nel maelstrom di suggestioni messe in scena, e tutta la ricchezza della contaminazione eterogenea della pellicola non arrivi mai a una efficace sintesi definitiva. (Simone Tricarico)

About Endlessness, di Roy Andersson (Svezia, Germania, Norvegia)



A cinque anni di distanza dal Leone d'Oro vinto col suo precedente lavoro, Roy Andersson torna a Venezia con un nuovo tassello della sua personalissima analisi sulla condizione umana. Poetica e messa in scena rimangono invariate: inquadratura fissa a comporre dei tableau vivant in cui si alternano personaggi squisitamente surreali, che descrivono in modo dolce e crudele il lato tragicomico dell'esistenza. Ma rispetto alla pellicola precedente c'è molta più rassegnazione e malinconia, e forse anche meno incisività. Nonostante la bellezza al solito impressionante del lavoro tecnico (la fusione con le ambientazioni ricreate sul set è incredibile), domina una sensazione di déjà vu che sembra evidenziare nel film una certa stanchezza creativa. Ma Andersson sa come colpire lo spettatore, magari ricreando magicamente un quadro di Chagall (Sulla Città), oppure mettendo a nudo tutta la solitudine che ci circonda con disarmante tenerezza. Perché l'ironia grottesca che permea la visione del cineasta è sostanzialmente un tentativo di disinnescare l'incomprensibile mistero dell'esistenza, difendendosi dove possibile dalle sue assurdità e dai suoi colpi bassi, magari affidandosi disperatamente all'illusione (come recita un personaggio) che tutto sia comunque bellissimo, nonostante le tante brutture che affollano la vita dell'uomo moderno. (Simone Tricarico)

The Painted Bird, di Václav Marhoul (Repubblica Ceca, Slovaccia, Ucraina)



Va’ e vedi, come il titolo del film di Klimov di metà anni Ottanta che viene subito in mente guardando l’ambiziosa opera del regista ceco. Un’odissea negli orrori della guerra, vista attraverso gli occhi di un bambino ebreo nell'Europa dell'Est. Un peregrinare in quello che appare come un inferno, raccontato tramite i suoi incontri con un’umanità varia che ha perduto la sua umanità. C’è poco spazio alla compassione, la brutalità domina il mondo. Fluviale, quasi tre ore di visione affascinante quanto dura da digerire per come ti spiattella in faccia certe atrocità. Una storia ispirata all'omonimo romanzo di Jerzy Kosinski portato sullo schermo con un 35 mm di grande forza visiva, un elegante  bianco e nero esaltato dalla fotografia di Vladimir Smutny debitrice per certi immagini di film firmati da Bela Tarr e da Tarkovskij. Tra le numerose scene da menzionare, l’attacco a un villaggio  di un gruppo di cosacchi magistralmente orchestrata. Una ricerca estetica forse troppo ostentata, ma il risultato è di ottimo livello. Preziose le partecipazioni dei diversi attori importanti coinvolti nel progetto: da Harvey Keitel a Stellan Skarsgard, da Udo Kier a Julian Sands. (Fabio Canessa)

Babyteeth, di Shannon Murphy (Australia)



Un’adolescente malata, l’incontro con un ragazzo esuberante e complicato, la scoperta dell’amore che fa nascere in lei una nuova gioia di vivere. La trama è una di quelle che prima di vedere il film lasciano presupporre dosi massicce di retorica e facili lacrime apparecchiate allo spettatore con collaudati artifici ricattatori. Bisogna dar merito alla regista, al suo primo lungometraggio, di aver evitato di disseminare lungo lo sviluppo della storia  troppe di queste trappole allo spettatore. Se non nel finale, facilmente immaginabile. Il racconto ha una sua spontanea vitalità, resa anche dalla fotografia colorata, non rinuncia a una buona dose di umorismo sebbene aleggi inevitabilmente il dramma e il pensiero della morte, ed è ben ritmato dall'uso della musica e da una costruzione narrativa che procede per frammenti ed ellissi. Più che il lavoro sui due personaggi interpretati dai giovani protagonisti, interessante la caratterizzazione dei genitori della ragazza malata e il loro relazionarsi al grave problema della figlia. (Fabio Canessa)

Guest of Honour, di Atom Egoyan (Australia)



Atom Egoyan torna a indagare verità nascoste con un dramma familiare costruito sull'alternanza dei piani temporali (filtrati ancora una volta dalla memoria e dai ricordi) e l'ambiguità morale dei personaggi. Il regista di origini armene tenta di dar forma a un gioco ad incastri in cui la storia si dipana secondo uno svelamento progressivo, che dovrebbe alimentare l'intreccio fino al climax finale. Ma la sceneggiatura è debole, e i presupposti si perdono in una trama esile, banale e scarsamente credibile, costruita attorno a poche suggestioni isolate, che non consentono di tenere alta la tensione fino alla fiacca chiusura. Egoyan mescola generi e stili diversi, ma trascura la narrazione, perdendo spesso forza e efficacia. Anche la recitazione, se si esclude il protagonista David Thewlis, non lascia il segno togliendo fascino ai personaggi. Il paziente lavoro di attenzione chiesto allo spettatore non è ricompensato da una soddisfacente risoluzione dell'intrigo, ma le vicende restano sospese fra il senso di delusione e quello di scarsa verosimiglianza. (Simone Tricarico)

Saturday Fiction, di Lou Ye (Cina)



Spionaggio e recitazione si sfiorano, si intrecciano, si confondono nel film del regista cinese. Molto atteso, anche per la presenza della divina Gong Li come protagonista, delude (almeno in parte) le aspettative, sviluppandosi come un gioco di specchi tra realtà e finzione, vita e rappresentazione teatrale che non decolla mai, risultando poco avvincente e creando scarsa empatia con  personaggi. L’atmosfera è da noir-melò anni Quaranta e l’aspetto stilisticamente più interessante è il contrasto con una messinscena contemporanea veicolata dall’uso costante della camera a mano. Ambientato nei giorni precedenti l’attacco di Pearl Harbor, nella Shanghai dell’epoca dove si muovono i servizi segreti contrapposti, il film si regge sulla dolente interpretazione della grande attrice cinese, il suo sguardo che nasconde e suggerisce i misteri dietro il suo personaggio, la sua fisicità quando sul finale l'azione si fa più insistente. (Fabio Canessa)

Gloria Mundi, di Robert Guédiguian (Francia)



Guédiguian torna in concorso con un dramma corale che affronta il tema della crisi (non solo economica) nella famiglia moderna. Come sempre il regista francese realizza un film di scrittura, dialogato, basato su una tesi attorno a cui costruire la trama. Ma questa volta qualcosa non funziona nella fluidità del racconto, che sembra penalizzato da scelte narrative poco felici e banali, prive oltretutto della brillantezza di altri lavori. Così, nonostante molti spunti interessanti e riflessioni attualissime sui rapporti affettivi e la società contemporanea, si ha la sensazione di una progressione troppo lineare e scontata degli avvenimenti, che concorrono solo a soddisfare le premesse ideologiche del film (come sottolineato anche dal riferimento esibito nel titolo), a scapito dell'autenticità e dell'empatia dei personaggi. Non è un caso che i ruoli più riusciti siano quelli interpretati dagli attori storici dell'autore, in grado di infondere umanità alla vicenda anche in momenti in cui la regia cade vittima di passi falsi e ingenuità visive. (Simone Tricarico)

Waiting for the Barbarians, di Ciro Guerra (Stati Uniti, Italia)



Ciro Guerra continua il suo personale viaggio nella fascinazione etnografica adattando l'omonimo romanzo di Coetzee. Il regista colombiano dipinge un ricco affresco sull'identità, che parte dagli orrori del colonialismo per affrontare simbolicamente, e in maniera più vasta, il tema della tolleranza, del razzismo e dell'integrazione. Ancora una volta il forte senso di appartenenza alle proprie radici costituisce un elemento importante, ma questa volta la sensibilità del cineasta nell'evocare le suggestioni metaforiche legate alle tradizioni e al folklore delle realtà culturali affrontate sembra meno incisiva rispetto ai suoi precedenti lavori. Waiting for the barbarians rimane comunque un'interessante riflessione sull'orrore della crudeltà umana, sostenuto dall'ottima interpretazione di Mark Rylance e dalla regia esteticamente appagante di Ciro Guerra. (Simone Tricarico)

A Herdade, di Thiago Guedes (Portogallo, Francia)



Sigaretta accesa e bicchiere di whisky in mano. È quasi sempre in scena cosi Albano Jerónimo, l’attore che interpreta il personaggio principale di questa storia di una famiglia, a confronto con quella del Paese e i suoi cambiamenti, che si dipana lungo mezzo secolo in tre tappe: un breve prologo a metà degli anni Quaranta, la parte principale tra il 1973-1974 quando con la rivoluzione dei garofani il Portogallo esce dalla dittatura e la conclusione agli inizi degli anni Novanta. Passaggi chiave anche della vita del protagonista, perché il film si risolve soprattutto come il ritratto di un grande possidente, un uomo carismatico e contraddittorio, progressista e autoritario, caratterizzandolo in modo interessante nel rapporto con gli altri personaggi. Film personale, familiare, ma anche di spazi aperti come un western. Ottima la fotografia che ben valorizza le location interne ed esterne e guida visivamente il racconto che, però, con il procedere dei minuti appare sempre più macchinoso e forzato. A salvarlo da una deriva deludente il buon finale, circolare. (Fabio Canessa)

La mafia non è più quella di una volta, di Franco Maresco (Italia)



Se - come da titolo - la mafia non è più quella di una volta, Franco Maresco è invece sempre lo stesso. Il suo nuovo film (che si potrebbe definire un sequel di Belluscone) geniale, divertente, grottesco, agghiacciante. Si ride tanto, ma con un retrogusto amaro perché l'indagine antropologica condotta da Maresco fa capire tante cose sul Paese  (non solo Palermo e la Sicilia) ed è difficile non essere d'accordo con la sua disillusione, il suo pessimismo, lo scetticismo criticato da Letizia Battaglia. La grande fotografa è protagonista del film insieme all’assurdo Ciccio Mira, l’organizzatore di concerti per cantanti neomelodici che appare sempre in bianco e nero e guida una galleria di personaggi che sanno di casi umani. Riprendendo da Belluscone lo stile ibrido, dove si confondono i confini tra documentario e finzione, vero e artificiale, presenta una struttura narrativa più precisa, con meno digressioni, e il solito irresistibile accompagnamento vocale del regista siciliano che diventa narratore-personaggio-intervistatore. Cinico, feroce, ma in fondo anche profondamente umano. (Fabio Canessa)



Fuori Concorso

Seberg, di Benedict Andrews (Stati Uniti, Regno Unito)



Volto iconico della Nouvelle Vague, tanto che molti hanno sempre pensato che fosse francese. E invece no, Jean Sean era americana e il suo Paese ha tentato di cambiarlo con un attivismo civile e politico che è finito per costarle tanto. In particolare l’impegno per i diritti degli afroamericani, compreso il finanziare le Pantere Nere, mise su di lei gli occhi dell’Fbi. Spiata, screditata, perseguitata. Il biopic di Benedict Andrews si concentra su questo aspetto della vita dell’attrice, rappresentando in modo però abbastanza convenzionale l’incubo di Jean Seberg e la sua discesa nella paranoia, giustificata per quanto subito, che ne provarono i nervi. La ricostruzione è avvincente, ma tipicamente hollywoodiana negli artifici narrativi e nel delineare i personaggi (basta pensare alla semplicità dell’evoluzione dell’agente che la spia e inizia a provare per lei empatia). Inoltre risulta un po’ superficiale nel ritrarre la passione politica della Seberg, mettendola quasi in secondo piano rispetto all’invaghimento nei confronti dell’attivista Hakim Jamal. Dignitosa la prova di Kristen Stewart nei panni della musa di Godard. (Fabio Canessa)

State Funeral, di Sergey Loznitsa (Paesi Bassi, Lituania)



A un anno di distanza da The Trial, Sergey Loznitsa continua la sua personale esplorazione storica sulle derive del potere con State Funeral, un documentario che, raccontando i giorni delle celebrazioni funebri alla morte di Stalin, ribadisce la cifra stilistica ormai adottata dall’autore. Il regista utilizza questa volta interamente materiali d’archivio, attraverso un notevole lavoro di ricerca e selezione, che trova la sua massima espressione in un montaggio che lavora per accumulazione, accostando innumerevoli frammenti e inserti di repertorio (anche di formati diversi). Loznitsa sembra così voler far rivivere in presa diretta gli avvenimenti simulandone la contemporaneità, in modo da immergere meglio lo spettatore nel cuore della vicenda. Iterativo e spesso di ardua fruizione nella sua durata complessiva, State Funeral mette alla prova più volte il pubblico con un’esperienza intensa ma forse non altrettanto gratificante rispetto al precedente lavoro Austerlitz. Tuttavia c’è qualcosa di estremamente ipnotico e prezioso nel flusso di immagini che scorrono sullo schermo, un fascino evocativo da cui emerge un’analisi potente ma prolissa sullo stalinismo e sugli agghiaccianti effetti della propaganda, oggi più attuale che mai. (Simone Tricarico)



Orizzonti



Pelican Blood (Pelikanblut), di Katrin Gebbe (Germania, Bulgaria)



Fino a che punto siamo capaci di stare al fianco di una persona, di un familiare borderline che fatica a restituire l'affetto? È questa la domanda che rivolge allo spettatore il film di Katrin Gebbe, attraverso il racconto di una madre single che adotta una bambina che col passare del tempo si rivela sempre più aggressiva e violenta. Dietro il suo comportamento un grave disturbo emotivo causato da un trauma infantile. Per la scienza sembrerebbe una patologia senza cure, ma la donna non si arrende. Qui il dramma, ma la narrazione si sviluppa toccando altri generi precisi: dal thriller psicologico all’horror. E il ghigno luciferino della piccola Katarina Lipovska è davvero inquietante. Sorprendente la prova espressiva e fisica della baby attrice. La paura si aggiunge così a sentimenti di impotenza e disperazione, ma il gioco sui generi finisce con il depotenziare l'approccio realistico interessante nel mostrare un incubo quotidiano vissuto da tanti genitori e famiglie costrette ad affrontare esperienze simili. Diverse scelte narrative e visive sono inoltre scontate e il finale deludente, portatore tra l’altro di un messaggio quantomeno discutibile nell’apertura a soluzioni irrazionali e antiscientifiche. (Fabio Canessa)

Sole, di Carlo Sironi (Italia, Polonia)



Cosa significa essere genitori? Il film, interessante opera prima, si muove attorno a questa domanda, usando come spunto narrativo il tema dei neonati venduti. La giovane Lena arriva dalla Polonia in Italia per vendere la bambina che porta in grembo e poter iniziare così una nuova vita. Ermanno, ragazzo che passa i suoi giorni tra slot machine e piccoli furti, deve fingere di essere il padre per permettere a suo zio e alla moglie, che non possono avere figli, di ottenere l’affidamento in maniera veloce, attraverso un’adozione tra parenti. Tutto ruota su di loro, attorno a questo incontro tra solitudini raccontato con efficace minimalismo e rigorose scelte stilistiche: inquadrature sempre fisse e il formato 4:3 che non appare un vezzo, ma davvero funzionale alla narrazione per come incornicia i personaggi in spazi ristretti, nel loro mondo, senza orizzonti. Un film cupo che si apre poco alla speranza, se non nelle sfumature da racconto di formazione nel cambiamento dei personaggi resi in modo credibile dai due protagonisti Sandra Drzymalska e Claudio Segaluscio. Con un lavoro di sottrazione, fatto di sguardi apatici che urlano silenziosamente un vuoto interiore. (Fabio Canessa)

Revenir, di Jessica Palud (Francia)




La francese Jessica Palud presenta in Orizzonti un pasticciato dramma familiare che affronta in modo banale e ingenuo il tema del perdono e della riconciliazione. C'è davvero scarsa partecipazione emotiva verso le vicende messe in scena dall'autrice, prive di autenticità e impoverite da evidenti limiti di sceneggiatura. Fra ellissi non volute e situazioni talmente prevedibili da risultare inverosimili, si procede verso un finale scontato senza aver indagato in modo convincente nessuno degli spunti offerti dalle dinamiche affettive dei personaggi all'interno della storia. La presenza di Adèle Exarchopoulos è del tutto accessoria, anche perché affiancata da interpretazioni dimenticabili e poco convincenti. (Simone Tricarico)

Chola (Shadow of Water), di Sanal Kumar Sasidharan (India)



Una coppia di giovani fidanzati si sposta da un piccolo villaggio rurale alla città alla ricerca di po’ di svago, organizzando una breve gita della durata di un giorno, dall’alba al tramonto, all’insaputa della madre della ragazza, una donna ancorata a vecchi valori che per proteggere la rispettabilità della figlia non acconsentirebbe mai a concederle un’uscita con un ragazzo prima del matrimonio. Per raggiungere la città, i due fidanzati si fanno dare un aiuto dal di lui capo, un uomo dai modi bruschi e senza scrupoli che nasconde secondi fini nella sua apparente disponibilità ad accompagnare i ragazzi. La gita di piacere dura più del previsto: per la ragazza è l’inizio di un incubo. Impossibilitata a tornare al villaggio in tempo per non far scoprire la sua assenza alla madre, la giovane si ritrova come ostaggio di due uomini, il fidanzato inerte, incapace di farsi carico delle conseguenze del mancato rientro all’ora stabilita, e il suo capo, pronto a sfruttare la situazione per il proprio tornaconto. Già autore di tre lungometraggi nel corso del 2019 dopo aver vinto un Tiger Award al Festival di Rotterdam con Sexy Durga, Sanal Kumar Sasidharan firma un dramma che porta al centro dell’attenzione il perdurare della sottomissione e subalternità della donna nei confronti dell’uomo nell’India contemporanea. Il film è tutto giocato sullo scontro di archetipi maschili (uno aggressivo e dominante nei confronti della donna, l’altro più disinvolto e influenzato dai modi occidentali) dietro cui si celano i due volti di un’India che fatica ad uscire dall’emergenza delle violenze sessuali, divisa com’è in una transizione da valori tradizionali repressivi e patriarcali a nuovi modelli di rapporti di genere. Se i nobili intenti del regista sono apprezzabili, lo stesso non si può dire del modo in cui vengono tradotti nel racconto per immagini: una smaccata allegoria prende il sopravvento, in una sorta di teatro dei burattini in cui i personaggi sono ridotti a mere rappresentazioni di stereotipi. Il tema c’è ed è interessante, manca tutto il resto. (Francesco Siciliano)

White on White, di Théo Court (Spagna, Cile, Francia, Germania)



Inizi del XX secolo, il fotografo Pedro viene assoldato da un potente e invisibile latifondista del sud del Cile , in piena Terra del Fuoco, per immortalare il suo matrimonio con la giovanissima Sara. La bellezza e il candore virginale della giovane sposa, poco più che un'adolescente, crea un forte turbamento su Pedro, quasi una ossessione che lo porterà a rimediare un bel po’ di botte e soprattutto a diventare un altro dei numerosi sgherri beceri e violenti che compongono l’esercito personale dell’ineffabile Mr. Porter, il promesso sposo. Da fotografo che deve catturare la bellezza femminile e il momento del matrimonio Pedro diventa il testimone dell’odioso sterminio degli Indios nativi Selkman, immortalato dalla sua macchina fotografica. Lavoro di grandissima ambizione, White on White (Blanco en blanco il titolo originale), opera seconda del regista di origini cilene Théo Court, trova però il suo valore essenzialmente nell’aspetto tecnico, in quanto la mole di tematiche che il regista decide di affrontare (lo sterminio, la violenza infinita, la costruzione dell’immagine, il concetto di opera d’arte) in larga parte affogano in un mare magnum che non riesce alla fine a rendere organiche le tematiche stesse. Viceversa la regia, la costruzione dell’immagine, i piani sequenza, i giochi con la luce, la ricerca della perfezione cromatica e una fotografia che esalta lo splendore terrificante della Terra del Fuoco, fanno di White on White un lavoro meritevole, forse troppo incline al manierismo, ma di sicura presa. La prova di Alfredo Castro nei panni di Pedro dimostra per l’ennesima volta la bravura dell’attore, in un ruolo in cui più delle parole contano gli sguardi e i silenzi. (Massimo Volpe)

The Criminal Man, di Dmitry Mamuliya (Georgia, Russia)




Un uomo assiste casualmente ad un omicidio che diverrà poi un caso nazionale: il morto è infatti il portiere della nazionale di calcio georgiana. Inizialmente tentato di telefonare alla polizia per rendere una preziosa testimonianza, l’uomo invece intraprende un percorso improntato alla follia che lo conduce a diventare egli stesso un assassino.
Negli interminabili 130 minuti di The Criminal Man del regista georgiano Dimitri Mamulya si consuma una - per molti versi inspiegabile - parabola personale che porta il protagonista a compenetrarsi dapprima nell’omicidio che lo porta a visitare più e più volte il luogo del delitto e quindi a far emergere in sé quel lato malvagio che lo conduce all’omicidio.
Vero che il protagonista è un uomo talmente normale da risultare grigio, ma francamente la sua smania silenziosa di assurgere al ruolo di omicida risulta evidentemente ben poco credibile per la mancanza di una qualche spiegazione razionale o non che indichi dove e perché risiede in lui il germe del male, quasi il percorso fosse un semplice sentiero già tracciato che si trova in ogni essere umano, interpretazione antropologica ben poco credibile tra l’altro.
Se a questo aggiungiamo una sceneggiatura che più frammentata e disorganica non si può è facile capire come The Criminal Man, a parte qualche bella immagine costruita sfruttando i paesaggi e la tetra periferia di Tbilisi, risulti lavoro veramente deludente, in cui si accumulano sottotrame che svaniscono poi come il fumo lasciando un senso di inutilità, accentuato peraltro dalla durata della pellicola che non trova spiegazione neppure nei ritmi lenti, a volte soporiferi, coi quali il racconto avanza. (Massimo Volpe)



Giornate degli Autori

5 è il numero perfetto, di Igort (Italia, Belgio, Francia)



Il grande fumettista conferma le sue eccezionali doti da narratore anche al cinema in questo suo esordio dietro la macchina da presa. 5 è il numero perfetto (basato sull’omonima graphic novel pubblicata in tutto il mondo) è un noir classico nel suo spunto e sviluppo narrativo quanto originale nella messinscena. Per trovare riferimenti visivi, o meglio fare dei paragoni, bisogna al massimo guardare a certe atmosfere da Dick Tracy, a Kill Bill di Tarantino (con la divisione in capitoli, manco a dirlo cinque) e a Oriente. In particolare a certo cinema di Hong Kong. Il senso estetico, lo sguardo geometrico, il lirismo di alcune scene, la magistrale coreografia delle sparatorie, fanno pensare ai film di Johnnie To (nella trama il film è tra l’altro vicino al suo Vendicami). Una storia di tradimenti e vendetta, con al centro un sicario della camorra in pensione che torna in pista per regolare i conti dopo l’omicidio del figlio, ma anche di amicizia e rinascita. Tra le cose da segnalare la cura ai dettagli, delle scenografie, in una Napoli riconoscibile solo da poche scene e panoramiche. Per il resto è una ricostruzione visionaria di una città notturna, piovosa, deserta con suggestioni metafisiche amplificate dal grande lavoro fotografico firmato da Nicolaj Bruel. (Fabio Canessa)

La llorona, di Jayro Bustamante (Guatemala, Francia)



Jayro Bustamante racconta la tragedia del genocidio guatemalteco adottando l'horror come genere (una scelta interessante, definita naturale dallo stesso autore), alternando la finzione narrativa a fatti realmente accaduti. Il regista non cita direttamente nessun personaggio reale, ma si ispira ai protagonisti degli avvenimenti inserendoli nell'adattamento di una leggenda popolare molto sentita nel suo Paese. Bustamante sembra quasi voler esorcizzare le tristi vicende del suo popolo portando una giustizia sovrannaturale (l'unica evidentemente possibile) lì dove quella umana risultava sospesa e negata da comportamenti e azioni inimmaginabili. Lo fa adottando gli stilemi del film di genere, spesso con qualche ingenuità e senza troppa inventiva o padronanza del mezzo. Ma questa storia del terrore mette paura più per la sua componente umana, a cui il cineasta è maggiormente interessato, che per le derive orrorifiche, e offre comunque alcuni momenti riusciti in cui la tensione si coniuga con la riflessione storica. (Simone Tricarico)


Settimana Internazionale della Critica

Sanctorum, di Joshua Gil (Messico, Repubblica Dominicana, Qatar)



Il regista messicano Joshua Gil porta a Venezia uno dei lavori più interessanti e affascinanti visti fra le sezioni collaterali della Mostra. “La natura compenetra tutto col mistero dell’incomprensione”, sembra partire da questa frase di Hofmannsthal Sanctorum, mettendo in scena una sorta di apocatastasi simbolica vista attraverso gli occhi degli ultimi, dei reietti ai margini di una società contadina lacerata dalla povertà, dalla corruzione e dal narcotraffico. Una pellicola pervasa da fascinazioni che ricordano Carlos Reygadas (con cui Gil ha collaborato) e Apichatpong Weerasethakul, in cui la potenza della resa visiva si abbina al messaggio veicolato da miti legati a un mondo ancestrale non più indifferente alle azioni dell’uomo. Gil riesce a elaborare un impianto estetico ipnotico, in cui digitale e ambientazioni reali si fondono a creare suggestioni fortemente evocative, grazie anche a un meticoloso studio del sonoro. Una metafora che riesce a fondere reale e trascendente, in cui solo l’intervento di un piano ineffabile dell’esistenza accostato al nostro appare in grado di portare un’ultima giustizia in un mondo dominato dalla sofferenza e dalla miseria. Un film che assomiglia a un rito di passaggio, un’iniziazione a cui lo spettatore può abbandonarsi trascinato da un vortice visivo di grande impatto. (Simone Tricarico)

P.S.

Cari lettori, per la 76esima edizione della Mostra del Cinema, come avrete notato, abbiamo deciso di mettere in pausa il Live Blog. Nonostante i tanti apprezzamenti che nel corso degli anni abbiamo ricevuto da parte vostra su questo contenuto che a detta vostra “è l’unico modo per capire come si svolge la vita quotidiana degli amanti del cinema a un festival” abbiamo deciso di congelarlo per un anno, perché ha bisogno di una ristrutturazione. La Mostra è ogni anno più grande, i film sono sempre di più e l’indotto di vita sociale e di emozioni attorno si sta sempre più ingigantendo. La forma del resoconto verbale non basta più a noi e forse anche a voi. Per questa edizione della Mostra il Live Blog, quindi, si mette in standby, per tornare l’anno prossimo più ricco, sempre con l’obiettivo di mostrarvi come si vive da comuni mortali in un
grande evento come la Mostra del Cinema.
See you next year!


 

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