Ema - Recensione
- Scritto da Massimo Volpe
- Pubblicato in Film fuori sala
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Se con l’opera precedente Jackie, con cui aveva affrontato di petto il cinema hollywoodiano attraverso il ritratto di una delle icone femminili della Storia del XX secolo, Pablo Larrain si era inevitabilmente allontanato dal suo cinema di forte impronta storica e politica intimamente legata al suo Paese di origine, con la sua ultima fatica il regista cileno fa un ulteriore passo di allontanamento da quelle tematiche per approdare su ambientazioni e tematiche piuttosto distanti da quelle del suo cinema. Ema infatti è un’opera indubbiamente ambiziosa, per certi versi ardita, che cerca nel linguaggio cinematografico e nell’immagine la chiave di volta per portare sullo schermo una storia ordinaria, libera da prospettive politiche esplicite, in cui è il personaggio femminile della protagonista a trainare il peso della narrazione e del racconto.
Ema è una giovane ballerina, sposata con Gaston, il direttore della compagnia di ballo sperimentale per cui lavora. I due hanno avuto un figlio in adozione, Polo, ma la scelta è stata talmente fallimentare e tragica che il ragazzino, all’ennesimo gesto inconsulto, è stato riconsegnato ai servizi sociali e affidato ad un'altra famiglia. Divisi da un certo divario di età (lui è più anziano di 15 anni), Ema e Polo vivono il fallimento della loro esperienza di genitori in maniera quasi rabbiosa: continue accuse di incapacità, sensi di colpa insuperabili, tentativi tristi di affermare la loro inadeguatezza nella crescita del figlio, il concetto, quasi ancestrale, per cui secondo Ema, madri, nel senso più corporeo e carnale, si diventa anche se non si ha concepito il figlio. La ragazza decide di lasciare il tetto coniugale, lanciandosi in un'avventura anarchica nella quale c’è spazio per qualsiasi cosa che la incendi, nel senso proprio del termine; spinta da una folle vitalità egoistica lascia il lavoro, gira per Valparaiso con alcune sue amiche-colleghe-amanti, incarnando la filosofia del reggaeton, il ballo più istintivo e ribelle. Intreccia storie d’amore con uomini e donne, insomma una vita vissuta in ogni sua spigolatura, quasi alla giornata, nutrendosi solo di quel furore che nasce dal tentativo di superare il suo fallimento precedente. Ad un certo punto però una serie di tasselli che giravano come impazziti sullo schermo cominciano a prendere posto nella trama complessiva dell’opera e l’immagine di Ema cambia: quella che sembrava ribellione anarchica alimentata da una folle vitalità non è altro che parte di un disegno personale finalizzato al riportare a casa il figlio prima adottato e poi abbandonato.
In effetti assistere alla visione di Ema sapendo che di lavoro di Pablo Larrain si tratta, in più di una circostanza può generare stupore e incredulità, soprattutto pensando alle tematiche affrontate, anche se l’impianto del film mostra comunque da subito la mano di un grande regista, impegnato questa volta più sulla ricerca dell’immagine e del linguaggio che nell’analisi storica. Le tematiche politiche legate alla storia recente del Cile non sembrano essere quelle dominanti del film, sebbene Larrain sembra voler descrivere, ricorrendo a volte addirittura al videoclip, una generazione che dei drammi degli anni passati non ha la minima testimonianza diretta, una generazione vitale, feroce nella sua forza di affermare se stessa, una generazione che si affida al ballo per esprimere la sua ribellione.
Ma Ema è soprattutto un film che pone al centro del racconto una bellissima immagine femminile, molto controversa, sulla quale anche la critica si è moto divisa: madre fallita, cinica, manipolatrice, vitale, incendiaria, violenta ed egoista; la protagonista in effetti è tutto questo messo insieme e il metterle in mano quel lanciafiamme con il quale la vediamo dare sfogo alla sua forza distruttrice che le esplode dentro è stata una trovata geniale da regista di classe sopraffina. Ema è personaggio quasi schizofrenico, con una dicotomia interiore che la porta a giravolte di 180 gradi nella sua vita e nelle sue scelte, oppressa da un senso di colpa e di pentimento ma cinica abbastanza da manipolare tutti quelli che le girano intorno per raggiungere i suoi obiettivi.
Il solo aspetto che del film lascia una scia di amaro in bocca è il finale: troppo spiegato, troppo ingenuamente razionale oltre che ben poco convincente: la classica quadratura del cerchio un po’ forzata, oltre che sterilmente enigmatica. Per il resto il film vive su una regia eccellente, in cui Larrain trova nel giocare coi colori uno dei punti d forza del film, compreso quel continuo rimando al rosso fuoco che è un po’ lo spirito del personaggio che si impossessa di tutta la pellicola. Nel ruolo di Ema troviamo una bravissima Mariana di Girolamo, famosa in patria per i suoi ruoli nelle serie TV, meravigliosa nell’incendiare la protagonista al momento giusto, oltre che eccellente ballerina. Nella parte di Gaston troviamo Gael Garcia Bernal, un po’ vittima di Ema e un po’ carnefice (“un maiale sterile” come lo definisce gentilmente la moglie), attore che ormai è più che una garanzia assoluta.
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Massimo Volpe
"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".