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Silence - Recensione

Silence, ultimo lavoro di Martin Scorsese, è film carico di spiritualità, potente, a tratti ostico, dal quale emerge la solitudine dell'uomo di fronte alla fede che può portare al dubbio e alla disperazione

Il progetto di Silence nasce quasi 30 anni fa, quando Martin Scorsese, sulla scia de L’ultima tentazione di Cristo, decise di voler portare sullo schermo il romanzo dello scrittore giapponese di religione cattolica Shusaku Endo, scritto nel 1966. Attraverso un percorso scandito da varie tappe sin dai primi anni 2000 il progetto iniziò a prendere piede per giungere finalmente alla sua conclusione con la scelta della location taiwanese (per motivi economici a quanto pare) e l’inizio delle riprese iniziate nel 2015 e durate circa sei mesi.
Al di là della complessità del lavoro, dello scouting e della scelta produttiva, l’opera di Scorsese appartiene alla categoria dei film che necessitano la giusta sedimentazione per essere create, sebbene le tematiche della religione, della fede, del peccato e della redenzione siano sempre presenti nei lavori del regista americano.
Optando per un'aderenza piuttosto fedele al testo originale, Scorsese in Silence affronta il tema della solitudine dell’uomo di fronte alla fede e il terrore dell’apparente assenza divina nei momenti più tragici della vita, attraverso il racconto del viaggio di due giovani gesuiti portoghesi che nel XVII secolo si recarono in Giappone nel pieno delle persecuzioni condotte contro i cristiani, allo scopo di ritrovare il loro maestro, Padre Ferreira, di cui si erano perse le tracce dopo una presunta abiura.
Il film per la prima parte è raccontato come una serie di epistole che Padre Rodrigues scrive al suo superiore a Macao, per poi proseguire in forma di racconto classico. Rodrigues e Garupe, giunti in Giappone, si rendono conto di come l’opera di evangelizzazione sia stata praticamente stroncata dalle autorità locali, nonostante le piccole comunità di contadini continuino a rimanere abbarbicati alla religione cristiana pur privi di guida spirituale. Le persecuzioni e la morte cui andranno incontro molti cristiani che si rifiutano di abiurare pongono i due gesuiti di fronte al dilemma se sia giusto o meno continuare nella loro opera missionaria che mette a repentaglio non solo la loro vita ma anche quella di numerosi giapponesi convertiti. E’ soprattutto Rodrigues il personaggio attraverso il quale Scorsese cerca di compenetrare nell’animo dell’uomo posto di fronte alle atrocità e al silenzio divino che lascia l’uomo inerme di fronte alla fede.
Nella seconda parte del film, allorquando il gesuita è fatto prigioniero, assistiamo a frequenti dialoghi nei quali teologia e etica, antropologia e senso della fede, cercano di dare una risposta a quello che il gesuita si chiede tante volte nelle sue riflessioni: perché Dio regala agli uomini solo il silenzio? Ed infatti è proprio il silenzio di Dio quello che tormenta Rodrigues, portandolo spesso sull’orlo della disperazione e dell’abbandono, ma è anche la paura e la debolezza unite all’egoismo umano che determinano le sorti dei cristiani: può l’uomo di fede aspirare ad essere come Dio accettando ogni prova in nome della fede oppure è lecito aspettarsi la sua debolezza di fronte alla solitudine che può portare all’apostasia?
Sono molte le domande che Scorsese, da buon cattolico nonché sacerdote mancato, rivolge a se stesso attraverso il dubbio e la scelta finale che porta i gesuiti all’apostasia, ma oltre a questo aspetto più strettamente spirituale, da buon laico si pone anche il problema dell’aggressività che le missioni ebbero in quel Paese, soprattutto riguardo alla mancanza di capacità di comprensione della situazione locale, sociale e religiosa. Nel lungo colloquio che Rodrigues ha con l’apostata Ferreira, quest’ultimo lo pone davanti alla condizione del cristiano giapponese che ha semplicemente sostituto la sua divinità che deriva dal sole con una che risorge dopo tre giorni dalla morte e che promette loro un paradiso libero dalle umiliazioni e dagli stenti della sua vita terrena in un epoca feudale. Il Giappone è secondo Ferreira il luogo dove l’uomo può trovare la piena armonia con la natura e con tutto il creato, un luogo dove le radici del cristianesimo sono destinate a marcire. Questi preti caduti vivranno la loro esistenza alimentando la solitudine davanti a Dio e alla fede: avranno salva la vita, ma nella loro testa risuonerà sempre la frase che Cristo disse sulla croce: “Perché mi hai abbandonato?”.
Silence è film bello, potente, difficile per alcuni aspetti, addirittura ostico per la sua prepotente spiritualità che deriva dalle domande che l’uomo si pone sul suo rapporto con Dio e la fede, nel quale non c’è traccia di fideismo né di teologia spiccia applicata; è invece una grande riflessione su uno dei temi che da oltre duemila anni alimenta i dubbi dell’uomo: la fede è un dono di Dio oppure una condizione umana messa sempre alla prova?

Se l’aspetto spirituale, non squisitamente cristiano è giusto dire, fa da filo conduttore per le oltre due ore e mezza della pellicola ed è quello che la rende una opera dalla grande forza, l’elemento più squisitamente tecnico, pur rimanendo in secondo piano, ci offre un film in cui si nota la mano di un grande regista, capace di infondere pathos e di regalare immagini costruite in maniera straordinaria.
Perfino Andrew Garfield nel difficile ruolo di Rodrigues riesce ad offrire una prova degna di nota nell’interpretare il personaggio che più di tutti vive la sua fede con forza, dubbio e tormento. Liam Neeson nel ruolo del carismatico Ferreira e Adam Driver in quello di Garupe sono convincenti anch’essi, mentre tra gli attori giapponesi la prova più carica di pathos e meglio riuscita è senz’altro quella del grande Shinya Tsukamoto nel ruolo di Mokichi, uno dei ferventi convertiti.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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