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La gabbia dorata - Recensione

La gabbia dorata è un road movie di fuga dalla disperazione alla scoperta dell'illusione. Il tema dell'immigrazione clandestina trova un valido puntello narrativo nella storia raccontata da Diego Quemada-Diez, alla sua opera prima


La gabbia dorata (La jaula de oro) è un racconto di fuga che si trasforma in un road movie sui generis e che si completa nel dramma dell'illusione: fuga dalle baraccopoli del Guatemala che si estendono ai margini delle discariche, spesso unica fonte di approvvigionamento di una umanità ridotta ad una indegna esistenza, alla ricerca di un sogno carico di speranze; road movie dipanato lungo le interminabili linee ferroviarie merci che spesso costituiscono l'unica traccia di modernità; dramma dell'illusione che è proprio alla larghissima parte dei migranti clandestini che vedono naufragare in un attimo tutto ciò che avevano sperato.
Il lavoro di Diego Quemada-Diez, opera prima, esce in Italia, proveniente dal Festival di Cannes dove ha ottenuto entusiasti riconoscimenti, quasi in concomitanza con l'ennesima tragedia dell'immigrazione che si è svolta nel nostro Paese, quasi a voler affondare il coltello in una piaga purulenta della nostra società contemporanea.
La storia narra di tre ragazzi, poco più che adolescenti, che fuggono dalla miseria del Guatemala per cercare di raggiungere attraverso il Messico l'agognata terra promessa americana: uno di loro, Juan, sogna Los Angeles, l'altra, Sara, una vita che non sia fatta di latrine a cielo aperto e l'altro, Chauk, è un indio che sogna di vedere la neve. La loro sarà una odissea tra la solidarietà della gente che lancia sul carico umano stipato sui treni merci qualche provvista e il mondo che orbita per lucro intorno all'emigrazione clandestina: puttanieri, filibustieri, banditi, imbroglioni, passo dopo passo gettano in faccia ai tre ragazzi la cruda e sporca realtà che è per tutti il viaggio verso il sogno.
Il regista di origini spagnole Quemada-Diaz, da più di vent'anni ormai trapiantato in America e con alle spalle un buon pedigree fatto di collaborazioni con registi importanti (Inarritu, Spike Lee, Ken Loach, Tony Scott, Fernando Meirelles), è bravo ed efficace nel raccontare questa frantumazione di una speranza: lasciando molto spesso parlare le immagini e non cadendo nel tranello del film pietistico o socialmente impegnato, preferisce raccontare una realtà, quasi priva di sentimento, dove lo squarcio sulla miseria umana diviene sempre più ampio e spietato. Unico difetto è un certo indugiare sulle immagini che vorrebbero essere intrise di poeticità, senza però che questo attenui la lurida realtà, anzi proprio una di queste immagini, quella che fa da sottofondo visivo alla ballata che racconta i sentimenti di chi fugge, risulta uno dei momenti più belli e toccanti del film.

Alla fine del viaggio non è quello che si è raggiunto a contare, ma quello che si è perso, che farà sì che anche la neve e la terra promessa raggiunta non hanno certo il respiro della libertà e della dignità umana: questa è l'amara conclusione che il regista presenta, lasciando solo sullo sfondo, giustamente, il contrasto sempre più stridente tra mondo avanzato e arretratezza, tra egoismo e solidarietà.

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