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Dogman - Recensione

Dogman, il nuovo film di Matteo Garrone, si struttura come un moderno western, dove violenza e giustizia si affrontano e determinano le sorti di una umanità sempre in bilico tra il seguire le pulsioni e temerne le conseguenze

L’idea originale di Dogman, l’ultimo lavoro di Matteo Garrone, risale a circa quindici anni fa, un progetto sul quale il regista ha più volto accelerato per poi frenare e lasciarlo quasi nell’oblio. Sebbene impegnato nella realizzazione della sua personale rivisitazione della fiaba di Pinocchio, Garrone ha finalmente dato forma alla sua opera, in tempo per essere portata sulla Croisette, dove il regista romano ha già raccolto due riconoscimenti importanti con Gomorra e con Reality.
L’accoglienza a Cannes è stata entusiastica, nonostante la critica non si sia dimostrata compatta nel giudizio, ma Dogman è senza dubbio un grande film, un lavoro che ci riporta indietro nel tempo, che presenta molte più affinità con L’imbalsamatore piuttosto che con il più recente Il racconto dei racconti, ultima fatica prima di Dogman appunto.
Garrone prende spunto, come fece con L’imbalsamatore, da un fatto di cronaca avvenuto ormai circa 30 anni or sono, tra i più efferati e raccapriccianti della cronaca nera romana e non solo, ma al contempo ricco di una tragicità epica: il delitto compiuto dal Canaro della Magliana a conclusione di una storia nata e cresciuta nello squallore della periferia romana.
Va detto che il riferimento è molto libero e il film non ha alcuna intenzione di presentare una cronaca storica o una ricostruzione degli eventi, piuttosto attinge a quella tragicità da opera classica greca contenuta nel fatto di cronaca per costruire un racconto di violenza, sopraffazione, vendetta e redenzione.
Marcello è un uomo dimesso e dall’apparenza mite che gestisce una toilettatura per cani in un contesto che sta a metà strada tra la periferia degradata ed il paesone dove tutti si conoscono. Le sue passioni sono la figlia che vive con la madre da cui è separato e i cani verso i quali mostra un'attenzione ed un affetto smisurato. La sua indole mite e dimessa lo porta ad esser benvoluto da tutti e al tempo stesso ad essere incapace di sottrarsi dall'amicizia pericolosa con il bullo di quartiere, Simoncino, un ex pugile violento, drogato, che spesso lo coinvolge nei suoi loschi affari e che tutto il quartiere detesta per la sua condotta. Nonostante ciò, e per la sua indole, Marcello considera Simoncino comunque un amico, almeno fino a quando dopo ripetute angherie subite, essendo finito in galera pur di non tradire l’amico, al ritorno a casa va a bussare alla porta del bullo chiedendo che il suo silenzio venga riconosciuto e che possa entrare in possesso della parte stabilita del bottino del furto nel quale era stato coinvolto. Al rifiuto dell’ex pugile e dopo ulteriori vessazioni, Marcello si carica di un dovere che ritiene non più eludibile: ripulire il quartiere dalla presenza del delinquente, riacquisendo così anche la stima dei vecchi amici che gli avevano voltato le spalle proprio per il suo legame con Simoncino.
La storia che Garrone costruisce parte da un punto fermo che risulta fondamentale per la sua riuscita: la scelta dell’ambientazione, che è la stessa poi de L’imbalsamatore e che richiama in maniera cinematograficamente chiarissima al western: palazzotti in riva al mare, strade polverose, piazza su cui si affacciano ristoranti, bar, negozi, sala giochi, personaggi che solo dalla faccia mostrano la loro appartenenza ai buoni o ai cattivi. Un piccolo universo degradato, che rasenta lo squallore, dove le vite prendono le pochissime strade obbligate, dove anche il cielo ha sempre un colore un po’ meno chiaro e a volte plumbeo.
Dogman, in fondo è un western moderno, quello dove i personaggi crescono con la storia, di quelli nei quali si sa già che dovrà esserci una resa dei conti, dove la violenza non è solo il cazzotto o peggio il colpo di pistola, ma anche l’impossibilità di uscire da uno spazio chiuso che non ha vie di fuga. Quello che maggiormente colpisce nella pellicola di Garrone è la profondissima umanità dei personaggi: non solo Marcello, che merita un discorso a parte, ma persino il bestione violento Simoncino possiede i tratti della maschera umana che incarna la deriva autodistruttiva. Quelli di contorno poi confermano il taglio da western del film: facce che compaiono anche solo per una battuta sulle quali è scritta la storia personale, come fosse scolpita nel marmo.
Marcello è l’elemento che ingentilisce il racconto, la sua mitezza e dolcezza che lo porta nonostante tutto ad essere fiancheggiatore delle malefatte dell’amico, si esplica nella sua devozione per la figlia, nel suo dividere il piatto di pasta col cane, nel suo ergersi, ad un certo punto, ad eroe solitario, a giustiziere, a divinità che deve riportare l’armonia compiendo la scelta che appartiene solo alle entità sovrannaturali: decidere il destino di Simoncino per spazzare via lo sporco e riconsegnare al quartiere la tranquillità persa. Non è vendetta quella che compie il protagonista, è semmai un atto di giustizia e un atto di redenzione che lo porti ad essere nuovamente accettato da tutti.
Quando alla fine il minuto Marcello col bestione caricato sulle spalle ormai incapace di far male, si presenta nella piazza del quartiere per mostrare il suo atto di giustizia, così come facevano nel Far West coi cadaveri trascinati dal cavallo, ad accoglierlo c’è solo un mattino ancora più livido del solito e il suo fidatissimo cane; inutile cercare sguardi di approvazione, intorno tutto tace, ad accentuare un senso di crescente sconfitta e frustrazione perché probabilmente i demoni che affliggono l’animo umano non sono facili da uccidere.
La regia di Garrone è straordinaria, soprattutto per la capacità innata che ha il regista di costruire immagini dalla grandissima profondità e per aver saputo evitare tutto quello che avrebbe potuto fare del film uno splatter dai particolari scabrosi, ad ulteriore dimostrazione delle distanze prese dal fatto di cronaca reale; con ciò ha messo al centro del suo universo confinato in quel perimetro che racchiude la storia l’aspetto più squisitamente umano e la ribellione che il senso di giustizia fa crescere in chi è vessato, stimolando in tal modo anche qualche lettura politica del film.
A rendere quasi irreale in alcuni passaggi l’ambientazione del film la spettacolare fotografia di Nicolaj Bruel che con la sua tendenza a desaturare e a incupire l’immagine accompagna armonicamente lo svolgersi del racconto.

Marcello Fonte diventa sin da subito l’asse portante della storia nel ruolo di Marcello: grazie alla sua mitezza, alla innata simpatia e, soprattutto nella parte iniziale del film, alla vena comica costruisce un personaggio di grandissima umanità e tragicità, mentre Edoardo Pesce si cala benissimo nei panni del cattivo Simoncino, il personaggio che stravolge con le sue gesta la linearità del film.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4.5

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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