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Mouton - Recensione

Storia di un pedinamento cinematografico, quello di un giovane ragazzo soprannominato Mouton, in presenza e in assenza, il primo lungometraggio della coppia Deroo e Pistone fa centro nello schivare lo stereotipo e il peloso e nell'offrire un ritratto dal vero dell'ambiguità del reale. Premiato a Locarno come miglior opera prima

Mouton, in italiano Pecora, è il soprannome che Aurélien, diciassette anni, deve alla madre. Il suo soprannome è una delle poche cose che Mouton sceglie di tenersi quando, incipit della sua storia su schermo che si consuma senza apparente tristezza, firma il documento del tribunale dei minori che sancisce la separazione tra lui e la donna che l’ha messo al mondo, ma ora non è più in grado di prendersene cura. Da questa firma, da questo contratto, da questa scelta contro-natura, parte la storia di Mouton, personaggio e film, e dei mesi successivi, trascorsi a Courselles-sur-mer, Normandia.
Piccolo garzone di cucina in un ristorante sul mare d’inverno, seguiamo così le sue giornate fatte di gesti ripetuti e di una lenta crescita, le compagnie sulla spiaggia, il primo amore, l’attesa per la festa paesana di S. Anne. E quando la festa arriva, in un giorno di freddo sole di gennaio seguito da una notte di vino e balli, rito di fine inverno di sapore pagano, all'improvviso gli eventi accelerano; e poi precipitano, in una sola nottata: Mouton perde un braccio in un misterioso incidente e lascia il paese. Quello che rimane a Courselles-sur-mer è la sua ombra, nel ricordo dei gesti e dei frammenti di un passato vissuto fianco a fianco, le tracce fisiche lasciate nelle vite di chi lo aveva conosciuto, frequentato: un cane, i suoi compagni (di giochi), i colleghi del ristorante, i pesci dalla pelle viscida e liscia.
Il male che irrompe nella scena, inaspettato, inspiegabile, taglia in due il racconto, marca il confine tra presenza e assenza, tra corpo e ricordo, tra toccare e ricordare, tra parlare e scrivere, tra filmare e raccontare. E’ un male sottile, evidente ma inspiegato, come il sereno e un po’ ebete sorriso di Mouton, ambiguo e palese come il confine tra la convenzione e il suo sovvertimento, quello che il duo di registi francesi composto da Gilles Deroo e Marianne Pistone esplorano senza preconcetti narrativi o didattico-didascalici nel loro film. Ed è questa aperta sincerità, ferma sulle soglie del mistero di Mouton, dei suoi pensieri imperscrutabili, a legarci allo schermo, e ad emozionarci.
Un racconto senza punti cardinali, capace di rinunciare a tutto quanto possa sporcare la purezza narrativa dei suoi intenti, che si riassumono nel pedinare Mouton; capace di rinunciare, per assurdo, anche al corpo del suo protagonista, e così di dimostrarci la sua permanenza anche nella lontananza, infiltrazione sotto la pelle che se ne rimane là, acquattata in attesa di uscire. Deroo e Pistone usano la formula del realismo e degli interpreti non professionisti e vincono soprattutto perché tutto questo lo fanno senza usare trucchetti, senza quell'accumulo di sfighe e senza la pelosa rappresentazione di degrado e povertà, di cui purtroppo certo cinema europeo che si dichiara ispirato alla realtà fa un uso eccessivo e stancante (chi ha sussurrato le parole Fratelli e Dardenne?), ma cercano e trovano una loro via, poco illuminata ma che ti porta dentro la storia del loro personaggio, del loro soggetto e oggetto di studio, di inseguimento: Mouton.

Nella lista dei film in concorso per la sezione Cineasti del Presente all’ultimo Festival di Locarno, Mouton ha portato a casa il premio della giuria e quello come miglior opera prima. Meritatissimi.

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