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Història de la Meva Mort - Recensione

L'immaginario incontro tra il libertino Casanova e un poco convenzionale Conte Dracula si bagna di toni donchisciotteschi nel racconto esteticamente curatissimo e potenzialmente intrigante quanto tradotto in atto con una scelta di ritmo che favorisce il tedio e poco interesse per la sostanza dei personaggi loro malgrado ivi rappresentati. Pardo d'Oro a Locarno 2013 per Albert Serra


La mia storia dimostrerà che siamo degli imbecilli quando cerchiamo fuori di noi le cause dei nostri guai, perché sono tutte, direttamente o indirettamente, in noi stessi. (Giacomo Casanova)

Partendo dalla Svizzera del Settecento il libertino a fine carriera Giacomo Casanova, illuminato ma anche schiavo dei propri quotidiani bisogno corporali, si mette in viaggio in compagnia del fido e paffuto servitore alla volta del ventre oscuro dell’Europa rurale, nella regione dei Carpazi; laggiù, sulle sponde di un fiume invalicabile, al limitare della foresta atra, verrà a contatto con il mistero dell’abitante di un nero castello, e del suo abitante appassionato di carne e sangue: il conte Dracula.
Sulla scorta di siffatte premesse narrative e accompagnato dalla fama del suo artefice Albert Serra, Història de la Meva Mort è giunto all'ultimo Festival di Locarno atteso e carico dell’anticipazione propria delle alte aspettative e ora si appresta ad uscire nelle sale francesi. Per raccontare questa storia di un incontro mai avvenuto, il regista catalano prende il personaggio di Casanova e lo incornicia in una serie di quadretti statici, affascinanti e stanchi, filmati nella 'grana' grossa e dai cromatismi artificiosi di un digitale (volutamente?) forzato al bruttino estetico. Protagonisti di questi quadri, (dis)organizzati in uno spezzatino (contro)narrativo che non si fa scrupolo alcuno di sintesi, sono pochi personaggi, i loro dialoghi appesi al crinale tra la maniacale cura delle parole scelte e l’insignificanza del loro senso, tra vuoto e raffinatezza, fin ad ostentarne l’affettazione; il resto è tutto sfondo.
Scene e soluzioni intrepide e cariche di intriganti situazioni – come ad esempio il crasso umorismo che sconfina nel becero e l’ossessione per il cibo e la merda del personaggio di Casanova, che vengono riprese senza risparmi di dettagli nel segmento svizzero iniziale – finiscono per annegare nel brodo del tedio, al lento rimescolio di un ritmo che non c’è, affogate e neutralizzate dal loro stesso, voluto, disinteresse per il racconto storico e la descrizione del personaggio e dei suoi pensieri. Persino la palese e palesata rilettura letteraria del Casanova come novello Don Chisciotte (del resto l’opera più nota del catalano rimane proprio Honor de Cavallerìa, storia ispirata alle gesta verbali più che pratiche dell’Hidalgo che venne dalla Mancha nei libri) accompagnato nel viaggio da barbuto servitore emulo del Sancho Panza di Cervantes, e dei loro colloqui all’ombra di fresche frasche e immaginifiche avventure del pensiero, che è al principio gustosa e intrigante, mostra presto la corda nella ripetizione della sua modularità senza variazioni ed evoluzioni. Così, quando nella storia fa capolino il nero Conte Dracula, insieme al mondo che lo ospita, quello pagano, terreno della campagna profonda, fermo alla sua matrice medioevale, il film che parrebbe voler svoltarvi intorno è ormai privo di abbrivio, ed esaurisce il suo (incontinente) minutaggio per sola inerzia o quasi.

Premiato col Pardo d’Oro del concorso locarnese – riconoscimento in cui è scoperto lo zampino del presidente di giuria Lav Diaz, un altro cui sintesi ed efficacia del dialogo tra narrazione e ritratto cinematografico non sono propriamente pane quotidiano – Història del la Meva Mort, partito con altissime, enormi ambizioni, finisce per essere raccontabile più che altro come l’ennesimo esperimento di interpretazione/trasposizione del Chisciotte con altri mezzi e in altri contesti; esperimento su cui grava la maledizione che ben conosciamo, per evitare la quale l’unica ricetta possibile ad ora suggerita, che ogni autore volesse cimentarsi con quel testo dovrebbe ben tenere sempre a mente, rimane sempre quella di Jorge Luis Borges e del suo Pierre Menard: “Chi insinua che Menard dedicò la vita a scrivere un Chisciotte contemporaneo, calunnia la sua chiara memoria. Non volle comporre un altro Chisciotte - ciò che è facile - ma il Chisciotte.”.

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