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Men Don't Cry - Recensione

Potente dramma post-bellico, Men Don't Cry segna un possibile percorso per l'uscita dalla tragedia delle Guerre Balcaniche che ancora dopo venti anni produce tragedie personali, odi e rancori

In un isolato albergo deserto da fuori stagione tra i monti della Serbia a vent’anni ormai dalla fine delle guerre balcaniche un gruppo di reduci, appartenenti alla varie fazioni che si combatterono, si ritrovano per un programma riabilitativo tenuto da una organizzazione umanitaria. Il tutor del gruppo è uno psicologo sloveno cui è affidato il compito di tentare di guarire le ferite interiori che gli uomini si portano dentro. Il gruppo è eterogeneo non solo per provenienza etnica, ma anche per età e provenienza sociale: ci sono ex combattenti croati e serbi, musulmani bosniaci che hanno conosciuto la tortura, mutilati e invalidi che portano sul corpo, oltre che dentro di sé, i disastri della guerra. Attraverso esercizi ludici apparentemente infantili, sedute di autocoscienza e vere e proprie confessioni di episodi atroci che vengono riprodotte come in una tragica recita, lo psicologo inizia il suo faticosissimo lavoro, perché, dopo vent’anni le tensioni tra gli appartenenti alle varie fazioni sono lungi dall’essere sopite: cetnici, ustascia, muslim sono i termini dispregiativi con cui serbi, croati e bosniaci vengono appellati e nelle sale dell’albergo questi termini ancora vengono urlati con rabbia e violenza.
Momenti di rimembranze drammatiche e scatti di violenza si alternano nel difficile lavoro dello psicologo, e anche quando grazie all’alcool che il gruppo si procura la tensione sembra svanire, il gioco da ubriachi, come bambini irruenti, si trasforma in una parodia della guerra in cui invece dei proiettili e delle bombe volano tovaglioli, cuscini e suppellettili vari lanciati tra insulti gridati con la voce impastata dall’alcool. I racconti delle esperienze personali della guerra sono atroci e lungi dal portare a una riconciliazione spesso alimentano la rabbia e il rancore. Sarà un funerale a far coagulare finalmente un minimo di pietas umana intorno al gruppo dopo tanto risentimento e odio, tra le preghiere musulmane e i segni della croce ortodossa e cattolica.
La scena finale rappresenta in maniera emblematica quella che è una delle possibili vie d’uscita da una situazione di belligeranza silenziosa ancora presente dopo venti anni, quasi una visione che già in alcuni film sul tema delle Guerre Balcaniche abbiamo visto: la fiducia nelle nuove generazioni che non hanno conosciuto quegli orrori.
Men Don’t Cry del regista bosniaco Alen Drljevic, recente trionfatore assoluto del Karlovy Vary International Film Festival, entra di diritto in quella serie di film sulle Guerre Balcaniche che ormai costituisce quasi un genere: opera durissima sulla guerra ancora una volta raccontata senza mostrare nulla della guerra, privilegiando il racconto dei traumi e delle tragedie interiori che quel conflitto hanno causato. Il regista, combattente in guerra lui stesso, mostra in maniera fulgida una capacità di sapere entrare alla perfezione nella tematica della storia, indicando una precisa via per la risoluzione di un dramma che milioni di persone si portano dentro. Affermando con forza il concetto che nella guerra atrocità e violenze, morti innocenti ed episodi esecrabili si sono verificati in tutte le fazioni in lotta, Drljevic indica nell’emergere di un sincero sentimento di pietas e di compassione l’unica via per superare le divisioni e gli odi. Per far ciò dimostra di credere profondamente in una sorta di analisi interiore che esorcizzi ed espella fragorosamente all’esterno i demoni che risiedono nell’animo umano e che si nutrono di rancore, odio, vendetta, spesso secolari.
Il percorso dei protagonisti del film è duro, difficile perché li obbliga a riflettere sul loro fallimento come uomini e come soldati, sentimento che almeno inizialmente tende ad aumentare la rabbia e la frustrazione, ma secondo il regista è l’unico passo per uscire dallo stato di morti viventi per poter tornare ad essere uomini veramente.
Per quanto detto Men Don’t Cry è lavoro che almeno in parte si discosta da quelli simili prodotti in tutti i paesi che quella guerra la vissero drammaticamente: il film infatti traccia, forse per la prima volta, la strada da seguire per far sì che le nuove generazioni non abbiano più maestri di odio ma uomini che possano con la loro drammatica esperienza di catarsi ergersi a modelli. La regia di Drljevic è pulitissima in quello che tutto sommato è un dramma da interni, seppur abbastanza dilatati, regala indubbiamente momenti di grande cinema e di autentica, drammatica ed emozionante bellezza e non mette in atto alcun espediente per nascondere la profondità del dramma.

A rafforzare la qualità del lavoro, che rappresenterà la Bosnia nella corsa all’Oscar per il miglior film straniero, uno stuolo di attori bravissimi, tra i migliori che le cinematografie balcaniche sono in grado di offrire oggi: dal serbo Boris Isakovic al croato Leon Lucev, dal bosniaco Emir Hadzihafizbegovic allo sloveno Sebastian Cavazza.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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