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Colo - Recensione (Festival di Berlino 2017)

Primo film portoghese inserito nella Competition della Berlinale 2017, Colo racconta un pezzo di mondo in una chiave di lettura potenzialmente interessante, se non fosse per lo sfinimento visivo a cui è condotto lo spettatore a causa di scene uguali tra loro nella fattura e nel senso

Un appartamento in un grattacielo ospita una famiglia di tre persone. I genitori sono di mezza età, la figlia adolescente. Ognuno di loro vive a suo modo gli effetti di una situazione economica e conseguentemente di vita divenuta insostenibile. Il padre, infatti, ormai da diversi mesi non ha più lavoro e la madre è costretta a lavorare il doppio per sopperire alla mancanza dei soldi. La figlia, dal canto suo, vive un perenne stato di crisi. Non ha dialogo con i genitori, non riesce ad essere serena con il suo fidanzato che entra ed esce dalla sua esistenza, non trova nemmeno supporto nella sua migliore amica, la quale scopre improvvisamente di essere incinta. La scuola non va e a casa riesce a provare affetto con il suo canarino. Insomma il nucleo famigliare si sta disgregando e mentre la donna si trasferisce a casa dei suoi genitori e il marito va da sua madre, la giovane ragazza rimane davvero sola e poco può fare di fronte al protrarsi della sua solitudine.
Il nuovo lavoro alla regia di Teresa Villaverde, Colo, si propone per la totale assenza di narrato. Per più di due ore lo spettatore è messo in seria difficoltà nell'osservare che sullo schermo non accade assolutamente nulla, se non un inanellarsi di scene velate da un apparente nonsenso. Le azioni del padre (Joao Pedro Vaz), infatti, non sembrano dettate da molta lucidità. Spesso scappa di casa e resta fuori a girovagare per l'intera notte in uno stato di annientamento; quando è a casa, invece, si impegna in pulizie domestiche, a volte anche del condomino, con una furia e una precisione maniacale. Con la figlia, inoltre, passa da momenti di forzata empatia all'assoluta incomprensione, fino a decidere di prendersi cura volontariamente dell'amica incinta della ragazza e portarla con sé a casa della madre. Si capisce che ha perso il lavoro e nel tentativo estremo di recuperalo è anche capace di rapire il suo ex datore di lavoro. L'azione, ovviamente, non sortisce gli effetti sperati, bensì spinge l'uomo sempre più dentro la sua gelida follia. La madre (Beatriz Batarda) dal canto suo appare più lucida. In realtà la sua incapacità di provare emozioni di fronte alle azioni del marito o al taglio della bolletta della luce, lasciano molti dubbi sulla sua stabilità mentale. Infine c'è la figlia, interpreta dall'attrice esordiente Alice Albergaria Borges. Gli sbalzi d'umore da lei provati, la sua ricerca continua di affetto, la sua apparente incomunicabilità con tutto ciò che le sta attorno, fanno parte del suo essere adolescente. Ciò che preoccupa è la non espressione di ciò che sente.
Colo racconta, pertanto, delle vite annullate, delle esistenza incastrate in un grattacielo senza pathos. E' talmente asettica la vita di questa famiglia che non c'è preoccupazione, non c'è ansia, non c'è nulla. La situazione, quindi, non può esplodere, non può cambiare. Nemmeno la separazione dei genitori e l'abbandono della figlia rappresentano la miccia per cambiare, per invece dimostrare la netta conseguenza di uno stato di cose normale nella sua anormalità. Questa è l'analisi della regista portoghese che sin dalle prime battute propone il tema della solitudine e dell'abbandono come chiave interpretativa di Colo, mostrando il fidanzato della ragazza che si allontana da lei, lasciandola rannicchiata su sé stessa, nella quasi stessa posizione in cui si stende a letto nell'ultima inquadratura del film. Basta, però, mostrare questo per permettere allo spettatore di ampliare la sua riflessione e incollare il suo sapere sulla situazione sociale odierna a quanto illustrato dal film o al contrario aumentare la sua cognizione? Forse no. Nel fare ciò, infatti, non sembrano sufficienti i movimenti di macchina lenti che scivolano sulle vite dei protagonisti o i campi lunghi intenti a mostrare la solitudine delle loro vite. Sarebbe servito, probabilmente, un maggiore lavoro con gli attori, da parte della regista, per comunicare meglio a loro come esprimere le psicologie dei loro personaggi e l'effetto di 'spaiamento' delle loro esistenze. Non è sufficiente, infatti, la pura osservazione di espressioni, a volte, drammaticamente forzate dei volti a descrivere la loro crisi esistenziale. Sarebbe stato, inoltre, utile eliminare alcune scene che reiterano un concetto globale ampiamente chiaro sin dall'inizio del film, così da evitare di condurre chi osserva a uno sfinimento visivo. Ciò è aggravato dall'assenza, infine, di una grammatica visiva di Villaverde in grado di condurre lo sguardo dello spettatore verso ciò di cui il film tratta.

Questi i grossi limiti di Colo che avrebbe potuto raccontare un pezzo del mondo di oggi.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 2.5

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Video

Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

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