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Incontro con Quentin Tarantino, Michael Madsen e Kurt Russell per The Hateful Eight

Quentin Tarantino - Kurt Russell - Michael Madsen - Roma - The Hateful EightIl regista e i due attori a Roma per la premiere del film atteso nelle sale il 4 febbraio. “The Hateful Eight come La Cosa western”, promette il cineasta italo-americano

Dopo la proiezione in 70mm nel mitico Teatro 5 di Cinecittà, la presentazione alla stampa italiana di The Hateful Eight si è tenuta nella prestigiosa cornice dell’Hotel Hassler a Trinità dei Monti a Roma. Quentin Tarantino, accompagnato Ennio Morricone (che ha curato le musiche) e da due membri del cast, Kurt Russell e Michael Madsen, monopolizza come sempre la scena grazie alla sua logorrea mai banale, prodigiosamente sostenuta da una cinefilia che ha pochi eguali al mondo.
Circa un’ora di cinema raccontato con passione, con grande amore per il suo lavoro ed enorme rispetto per lo spettatore: Tarantino insomma, quando si parla di Cinema, riesce sempre ad affascinare.

Siamo arrivati al suo ottavo film. Guardando anche al passato, c’è sempre nei suoi lavori qualcuno che finge di essere qualcun altro. Le piace molto questo espediente narrativo?
Quentin Tarantino: Questo apparentemente sembra vero perché in tutti i miei film c’è qualcuno che si maschera da qualcun altro, se poi il personaggio ci riesca o meno determina se vive o muore. Comunque sì, è un elemento comune che percorre tutti i miei lavori, forse con l’eccezione di Pulp Fiction in cui c’è solo il personaggio di Bruce Willis che finge di essere un altro, ma lì è diverso però… Tornando alla domanda, francamente non so perché ci metto sempre questo elemento nei miei film. È qualcosa che mi piace soprattutto come aspetto drammatico e poi, avendo sempre degli ottimi attori con cui lavoro, mi piace molto metterli alla prova.

Lei ha girato questo film in un magnifico 70mm, un formato che purtroppo ormai non viene quasi più usato. Potremmo pensare che la battaglia tra il digitale e la pellicola possa intendersi come una metafora della battaglia tra cowboy e indiani?
Q.T.: Beh sì, mi sta anche bene come metafora, anche se spero che la pellicola possa resistere di più di quanto è successo con gli indiani, che però hanno venduto cara la pelle e ne hanno fatte vedere di tutti i colori ai loro nemici.

Come dice il maggiore Warren nel film, lei sembra essere andato con più calma e lentezza verso l’esplosione violenta con un lungo preambolo dove apparentemente non succede nulla, anche se in realtà la tensione cresce progressivamente. È stata una scelta voluta questa?
Q.T.: Di fatto il film assomiglia molto a una piece teatrale, quindi non è stato possibile ricorrere a tutti quei trucchetti ed espedienti che solitamente si usano. In The Hateful Eight sono prioritari i dialoghi: è questo essenzialmente il motivo.

Di questo film si è detto che sia un ennesimo omaggio al western di Sergio Corbucci, ma a ben vedere sembra quasi la versione western de La cosa di John Carpenter, col quale condivide anche il ruolo della protagonista femminile che manipola l’uomo.  
Q.T.: Forse la somiglianza sta nello scenario, nei paesaggi, ad esempio qui c’è la neve… Kurt Russell può confermare quanto sto dicendo: nel mio film c’è la condizione di questi personaggi intrappolati in una grande stanza e nessuno può fidarsi dell’altro. Un altro collegamento può essere che questa opera è un riferimento a Le Iene, fatto sotto forma di western. Se pensiamo che Le Iene era ispirato in qualche modo a La Cosa di Carpenter, allora sì, alla fine c’è una certa simbiosi tra questi tre lavori. Potremmo definire The Hateful Eight come La Cosa western.

Kurt Russell: Io posso solo dire di essere felice di essere stato parte di due film in cui il Maestro Morricone ha scritto le musiche e di cui Tarantino è stato sceneggiatore, inoltre ho avuto la fortuna di fare cinque film con Carpenter. Posso dire insomma che sono un ragazzo fortunato.

Cose ne pensa della polemica instaurata in questi giorni da Spike Lee su le ‘all white stars’ e sulla mancata nomination di Samuel L. Jackson agli Oscar?
Q.T.: Ovvio mi dispiaccia che Samuel non ha avuto la candidatura perché secondo me la meritava. Per il resto cosa posso dire… non sono stato nominato, se lo fossi stato avrei deciso di partecipare alla cerimonia degli Oscar!

Nei suoi film ha sempre utilizzato vari generi cinematografici miscelandoli. The Hateful Eight inizia come un western, prosegue come un dramma da camera e poi diventa un thriller. Come nasce questa alchimia? Imposta il lavoro in questo modo oppure si lascia prendere la mano durante la lavorazione?
Q.T.: In un certo senso è vero. Tendo sempre a essere trascinato da un genere, però c’è anche un altro motivo: io non riuscirò mai a fare tutti i film che vorrei realizzare, quindi condenso cinque film in uno. Come amante del cinema, mi piace vedere con occhio positivo quei film che sono un po’ a cavallo tra un genere e l’altro. Credo che se questo si riesce a fare bene, è una cosa molto positiva, anche perché così il pubblico risparmia sul prezzo del biglietto visto che può gustarsi svariati tipi di film in un unico lungometraggio. Inoltre penso di avere un po’ di talento da giocoliere con i vari registri narrativi e cinematografici. Riguardo alla metodologia, dipende molto dalla storia: se è più o meno pianificata sin dall’inizio, a volte mi lascio trasportare, altre volte succede che davanti alla sceneggiatura o al film finito mi trovi davanti a elementi che non avevo considerato. Nello specifico quando ho iniziato a lavorare a questo film, sapevo che volevo realizzare un western e un thriller da camera alla Agatha Christie: questi sono stati elementi che intenzionalmente avevo inserito nel film, però è stato solo alla fine che mi sono reso conto che avevo realizzato anche un horror e di questo sono stato felice.

La figura femminile del film è stata concepita come tale sin dall’inizio? C’è del dolo a renderla così cattiva e spietata e come mai tanto accanimento sull’unica donna del film?
Q.T.: Nello script il personaggio del prigioniero è sempre stato una donna, però se invece di una donna il personaggio si fosse chiamato Big Billy 140 chili il film non sarebbe cambiato in alcun modo. Il fatto che venga picchiata e maltrattata dipende proprio dall’atteggiamento del personaggio del Boia, che ha come missione di portare tutti i suoi prigionieri a morire sulla forca invece di ucciderli e per fare questo li deve sottomettere e maltrattare in qualche modo così da renderli incapaci di ribellarsi o fuggire e ovviamente non è disposto a fare eccezioni solo perché si tratta di una donna. Avrei potuto benissimo scegliere come prigioniero un uomo, però mi piaceva l’idea di scegliere una donna che potesse complicare la storia, le emozioni del film e la vostra visione.

Da un po’ di tempo il cinema americano ci presenta film che rielaborano la Storia e i valori che essa veicola: pensiamo a Lincoln, a Gangs of New York, a La 25° ora anche se non è un film storico. Lei ha dichiarato che questo è il suo film più politico: ci piacerebbe quindi sapere se, oltre al grande divertimento che ci ha regalato, The Hateful Eight contenga anche questa riflessione.
Q.T.: Non so se The Hateful Eight rispetti questa lettura, probabilmente vale per i due lavori precedenti. Posso dire che il film non nasce come politico: quando ho iniziato scriverlo, non pensavo sicuramente a un film di questo tipo, lo è diventato dopo, quando i personaggi, discutendo su quel periodo che seguiva la Guerra Civile, hanno fatto entrare nella storia un discorso politico. Questo per quanto riguarda la sceneggiatura, ma poi nel corso dell’anno che abbiamo impiegato per girarlo sono accaduti diversi avvenimenti su cui discutevamo tra di noi sul set e che sembravano poter avere dei riferimenti su quanto stavamo costruendo.

Per voi attori il sottotesto politico ha creato problemi nella realizzazione del film o l’amicizia e la sintonia che c’è fra di voi hanno fatto in modo che tutto filasse liscio?
Michael Madsen: Io sono convinto che i film di Quentin siano scritti più risolvere i problemi che a crearli. Certo, poi è lo spettatore che deve decidere se nel film c’è un messaggio politico, di sicuro possiamo dire che sin dai tempi di Le Iene c’è sempre stata una connessione tra le storie raccontate nei film e quanto accadeva nella società e nella realtà.

K.R.: Quello che amo da sempre nei film di Tarantino è che lui cerca continuamente di tessere una ragnatela. A me è piaciuto molto poter interpretare il mio personaggio. In tutto il mondo era risaputo che a quei tempi negli Stati Uniti ogni persona aveva diritto a un processo davanti ad un giudice: il personaggio di John Ruth incarna questo concetto, quello di poter portare chiunque in un tribunale. Sarà proprio il protagonista, il maggiore Warren, a onorare questo ideale nel finale della storia.

Il film sembra quasi essere diviso in due: ad esempio la prima parte si svolge di giorno, la seconda di notte. Crede che questo suo lavoro sia stato concepito per giocare su più livelli?
Q.T.: Beh sì, questo aspetto si lega al fatto che nel film c’è una tempesta che aleggia sui protagonisti, una specie di mostro in un film di mostri pronto a fare fuori chiunque osi allontanarsi. Man mano che diventa più buio e più freddo il mostro si fa più minaccioso: lo si vede anche sul volto dei personaggi nella quantità di vapore che producono quando respirano. Mentre il mostro che sta fuori diventa sempre più potente, dentro i protagonisti giocano una partita a scacchi cercando di combattersi e giocarsi la posizione più utile, cospirano, tramano. Il 70mm mi ha permesso di mettere sullo schermo due livelli, quello in primo piano e quello sullo sfondo, in questo modo si ha la possibilità di vedere cosa fa ogni personaggio. E' quello che cercavo di ottenere per creare più suspense. Creare i personaggi in questo modo fa aumentare la suspense perché sai che potrà accadere qualcosa ma non sai cosa e quando.


Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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