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Il regno dei sogni e della follia - Recensione

Una immagine de Il regno dei sogni e della follia, film di Mami SunadaUn interessante viaggio all'interno dello Studio Ghibli, durante le fasi finali della realizzazione di Si alza il vento, che regala a tutti gli appassionati d'animazione un intimo, emozionante, prezioso ritratto di Hayao Miyazaki. In cartellone al Far East Film Festival 2015, poi nelle sale solo per due giorni (25-26 maggio).

Autunno 2012. La regista Mami Sunada mette piede per la prima all'interno dello Studio Ghibli. Ha la possibilità di seguire da vicino Hayao Miyazaki e i suoi collaboratori impegnati nella parte avanzata della lavorazione di Si alza il vento, mentre anche Isao Takahata, in un'altra struttura dello Studio, sta finalmente portando a conclusione La storia della principessa splendente. Dal materiale girato nasce il documentario The Kingdom of Dreams and Madness (in italiano Il regno dei sogni e della follia) rilasciato in Giappone nel novembre del 2013, lo stesso anno dell'uscita degli ultimi film dei due maestri. Capolavori che chiudono perfettamente la parabola artistica di due geni assoluti del cinema d'animazione. Ritiro annunciato per il primo, fatto intendere dal secondo. A meno di improbabili ripensamenti (considerata anche l'età) i due fondatori dello Studio Ghibli non realizzeranno altri lungometraggi. Anche per questo motivo il documentario di Mami Sunada diventa una preziosa testimonianza del lavoro all'interno del laboratorio di animazione più amato al mondo, della ‘follia’ di due autori che hanno dato vita a un regno di sogni.
Le quasi due ore di The Kingdom of Dreams and Madness scorrono veloci, in fondo con quella fluidità sempre ricercata da Miyazaki nello sviluppo del movimento, il cuore dell'animazione. La sua dedizione al lavoro vien fuori chiaramente nel documentario, strutturato principalmente come un ritratto intimo del maestro durante la lavorazione di Si alza il vento. Si scopre così la quotidianità di Miyazaki che con l'immancabile grembiule, tra una sigaretta e l'altra, una visita ai bambini dell'asilo, lavora dalle 11 di mattina alla 9 di sera. Dal lunedì al sabato. Unico giorno libero la domenica che dedica alla pulizia dell'argine del fiume là vicino con gli abitanti della zona. Il lavoro giornaliero, pianificato con il braccio destro Sankichi, il suo metodo di scrittura che non prevede uno storyboard definito prima dell'inizio della produzione ma si completa strada facendo, le indicazioni allo staff e il rito quotidiano di andare sul tetto al tramonto tutti insieme a guardare il cielo. E poi il Miyazaki più privato che viene fuori per esempio dalle domande di Mami Sunada quando lo intervista nel suo studio personale dove conserva alcune vecchie caprette della collezione Heidi del museo Ghibli, salvate dall'abbandono in magazzino, e una serie di scatti realizzati a partire dal 2008 per fotografare la crisi finanziaria nella sua città. Il disastro di Fukushima, l'impegno contro il nucleare, i dubbi sul valore di fare film in un mondo contemporaneo che “in gran parte è spazzatura”. Un Miyazaki fortemente disilluso, che non si sente uomo del XXI secolo, che denuncia senza mezze parole la deriva nazionalista del Giappone con il governo Abe, che alla domanda se è preoccupato del futuro dello Studio Ghibli risponde così: “Il futuro è chiaro, andrà a pezzi. Lo posso già vedere. A cosa serve preoccuparsi? È inevitabile. Ghibli è solo un nome qualsiasi che ho preso da un aereo. È solo un nome”. Parole da cinico realista, eppure, mentre lo dice e si vede di spalle, si intuisce la commozione, l'amore per la sua ‘creatura’. E subito arriva un kirei na (che bello in giapponese) mentre lo sguardo va sul verde degli alberi che fa capire la natura profonda di Miyazaki, pur nelle contraddizioni umane di questo grande artista.
Nel documentario trova uno spazio importante anche Toshio Suzuki, storico produttore e figura chiave nello sviluppo dello Studio Ghibli, mentre appare soltanto un attimo Isao Takahata come a mantenere quell'alone di mistero che accompagna lo straordinario autore. Forse l'unica vera pecca di The Kingdom of Dreams and Madness. Non per questo viene dimenticata l'importanza fondamentale di Takahata, sia attraverso alcune coordinate storiche giustamente fornite nel corso della narrazione anche con brevi video d'archivio, sia con le parole esplicite di Yoshiaki Nishimura, il produttore che ha seguito più da vicino la realizzazione dell'ultimo capolavoro dell'animatore, il quale ricorda come sia stato Takahata, più grande di qualche anno, a scoprire Miyazaki (quando lavoravano insieme alla Toei), a scoprire Joe Hisaishi, a guidare all'inizio Suzuki: “Senza di lui lo Studio Ghibli non sarebbe esistito”. La personalità di Paku-san, questo il soprannome di Takahata, viene puoi in parte fuori dalle parole degli stessi Miyazaki e Suzuki, che si lamentano del suo modo di lavorare, disorganizzato, disordinato, del suo non rispettare mai le scadenze come se non volesse finire il film (dopo circa otto anni di lavoro per fortuna l'ha fatto, consegnando alla storia del cinema un capolavoro assoluto).

In conclusione, The Kingdom of Dreams and Madness è un documentario sicuramente imperdibile per ogni appassionato dello Studio Ghibli. Anche se i re hanno abdicato e non sembrano esserci successori, il regno in fondo non morirà mai. Troppo grande e inimitabile il patrimonio di sogni costruito in decenni di lavoro, sogni che il tempo non potrà cancellare.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4

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Fabio Canessa

Viaggio continuamente nel tempo e nello spazio per placare un'irresistibile sete di film.  Con la voglia di raccontare qualche tappa di questo dolce naufragar nel mare della settima arte.

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