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Claire's Camera - Recensione

Piccolo divertissement dai toni anche ironici, Claire's Camera è la personale riflessione sull'onestà e sull'arte di Hong Sang-soo, con i consueti rimandi personali

Nel 2017 Hong Sang-soo è sbarcato a Cannes con ben due lavori (dei tre diretti nell’annata): The Day After, in concorso, e questo Claire’s Camera, fuori concorso, film che a tutti gli effetti si pone principalmente come un piccolo divertissement, ricco come è di rimandi anche ironici. La storia raccontata da Hong in poco meno di 70 minuti è infatti ambientata a Cannes, proprio nei giorni del Festival del 2016, occasione in cui il regista ha filmato la pellicola sfruttando la presenza di Isabelle Huppert, a sua volta al Festival in qualità di attesa protagonista di Elle di Paul Verhoeven.
La seconda apparizione dell'attrice francese in lavori di Hong, la prima fu In Another Country, l’ambientazione proprio nei giorni e nei luoghi del Festival, il rimando nel titolo a quello che rimane il riferimento cinematografico più evidente del regista coreano, Eric Rohmer e il suo Il ginocchio di Clara, fanno di Claire’s Camera anzitutto una ennesima dimostrazione, fin troppo palese, del doppio filo solidissimo che lega Hong al cinema francese che a sua volta lo ha eletto a suo figlio putativo.
Claire’s Camera non fa nulla per nascondere il suo essere pellicola che appare nata quasi per caso, incastonata in una realtà apparentemente molto diversa da quella tipica dei lavori coreani di Hong, quasi un film scaturito spontaneamente intorno a una delle tante tematiche che affollano la poetica del regista. Come detto siamo a Cannes durante i giorni del Festival ed il teatrino costruito da Hong si impernia intorno ad una giovane assistente che si occupa della vendita di film, il suo capo e una insegnante francese, aspirante e timida artista, che giunge nella cittadina per accompagnare una sua amica al festival. Queste tre figure femminili ruotano intorno a quella di un regista ormai abbastanza attempato, dissoluto e ubriacone che ha avuto, sotto i colpi dell’alcol ovviamente, una storia fugace con l’assistente a sua volta licenziata dalla sua capa perché ritenute 'disonesta', in effetti per gelosia.
I quattro tasselli del mosaico costruito da Hong con la consueta staticità di immagini e di situazioni verbose, si trovano a ruotare in vario modo incontrandosi, allontanandosi, mossi dal fato e dalla macchina fotografica che Claire porta con sé per immortalare in istantanee i volti delle persone, che dopo la foto, a suo dire, non saranno più gli stessi; di fatto Claire diventa un catalizzatore di un triangolo che si presenta in forme sempre diverse grazie a piccoli spostamenti dei lati che lo compongono.
In questo lavoro Hong sembra molto interessato ad un paio di concetti che fanno da capisaldi di tutto il racconto: il valore dell’onestà (e della disonestà di contro) e quello dell’arte, in un binomio che sembra fondersi, nonostante l’onestà di cui parla Hong sembri più quella ben poco salda che il regista e la sua gelosa amante tradiscono quotidianamente. Ma, considerando sempre la proiezione di se stesso che il regista applica sui suoi protagonisti, la riflessione sull’onestà artistica del regista protagonista del racconto sembra essere il vero motore della storia.
Oscillando quindi tra perenne omaggio al cinema francese della Nouvelle Vague e ispezione e studio dei personaggi e attraverso essi dei vizi e delle debolezze dell’essere umano, Hong imbastisce un racconto che con buona armonia si accoda ai suoi precedenti in quella che ormai è diventata quasi una sua missione: costruire uno specchio nel quale rifletterci. Il regista coreano, alle soglie dei 60 anni, sta assumendo sempre più i contorni di quelle figure che soprattutto per la generazioni meno giovani erano un punto di riferimento: il vecchio saggio sempre pronto a raccontare episodi di vita vissuta con la immancabile morale sottintesa, per tale motivo  i film di Hong sono ormai degli attesi e familiari appuntamenti annuali e poco importa se la verve del regista è decisamente scemata rispetto al passato, quando dai suoi quadretti erano soprattutto la cattiveria e una certa dose di meschinità ad affiorare prepotente, laddove ora lo sguardo è decisamente più benevolo, quasi compassionevole.

I duetti tra Isabelle Huppert e Kim Min-hee risultano i momenti più belli e anche divertenti del film, con le due che sembrano avere una buona chimica di intesa; credibile nel dare vita ad un personaggio che sembra ormai rivolto alla inevitabile deriva personale Jung Jin-young, alla sua prima frequentazione di un set con Hong Sang-soo.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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