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Across Asia Film Festival 2018: intervista a Thunska Pansittivorakul

“Anche se nella situazione attuale non posso far vedere i miei lavori in Thailandia, spero che in futuro possano essere utili almeno come testimonianza di quello che succede oggi”. Il regista thailandese Thunska Pansittivorakul, invisibile in patria ma apprezzato nelle grandi manifestazioni internazionali, ospite dell’Across Asia Film Festival racconta il suo cinema

Incentrato sui linguaggi indipendenti e innovativi della scena asiatica contemporanea, l’Across Asia Film Festival punta ad approfondire a ogni edizione la produzione cinematografica di un singolo Paese o area geografica. Quest’anno il Sud-est asiatico, con un’attenzione particolare alla Thailandia. Così la direzione artistica, Stefano Galanti e Maria Paola Zedda, ha invitato in Sardegna Thunska Pansittivorakul e dedicato al regista thailandese una piccola ma significativa retrospettiva con la proiezione di suoi tre lavori realizzati negli ultimi anni: The Terrorists, dove viene affrontata la manifestazione di protesta delle magliette rosse nel 2010 con la dura repressione delle forze dell’ordine thailandesi, Supernatural, homoerotic sci-fi ambientato un secolo nel futuro che rappresenta allo stesso tempo un quadro distopico della Thailandia contemporanea, e Homogenous, Empty Time (co-diretto con Harit Shritao), documentario che osserva le cause della crescita del nazionalismo nel Paese del Sud-est asiatico attraverso un’indagine in varie comunità come cadetti militari e gruppi religiosi. Titoli che esprimono chiaramente il punto di vista dell’autore, critico verso una situazione politica e una società dove la censura è ancora forte, molti diritti continuano a essere negati e la Storia è spesso manipolata.
Classe 1973, nato a Bangkok da una famiglia di origine cinese, Thunska Pansittivorakul ha iniziato il suo percorso artistico alla fine degli anni Novanta, quando la rivoluzione digitale ha aperto nuovi orizzonti e facilitato l’avvicinamento al cinema come mezzo espressivo, per raccontarsi e raccontare il proprio mondo. I suoi lavori sono passati da grandi manifestazioni come la Berlinale, il Festival di Rotterdam e in Italia il Torino Film Festival. Nel 2007 è stato anche insignito in patria del Silpathorn Award, premio in precedenza andato ai cineasti thailandesi più noti a livello internazionale: Pen-Ek Ratanaruang e Apichatpong Weerasethakul.

Tra le sue note biografiche si legge che è stato scoperto proprio da Apichatpong Weerasethakul. Com’è iniziata la sua carriera?
Non ho studiato cinema, ma educazione artistica. All’università però ho scoperto che agli studi tradizionali di pittura e scultura, dove non avevo grandi abilità, preferivo la profondità di un linguaggio più contemporaneo com’è il cinema. Così visto che il dipartimento dove si studiava era vicino, ci andavo spesso. Fortunatamente per me in quel periodo iniziava anche l’era della diffusione dei pc e di Internet, mentre la tecnologia cinematografica diventava più accessibile. Così nel 1997 ho iniziato a usare la camera e a fare piccoli film completamente autoprodotti. Poi con dei cortometraggi a partecipare a dei concorsi. In uno di questi nella giuria era presente Apichatpong. Mentre gli altri quattro giurati hanno detestato il mio lavoro, a lui è piaciuto molto e mi ha supportato.

La sua filmografia è composta sia da documentari sia da lavori di finzione. Come si muove tra questi due modi diversi di fare cinema?
Devo dire che preferisco fare documentari perché mi permettono di incontrare molte persone diverse. E poi per fare un film di finzione ci vogliono più risorse economiche e non è facile trovare finanziamenti ai miei progetti per ragioni politiche.

Quando l’interesse politico è diventato preminente nella sua produzione?
Onestamente prima del 2010 non mi ero mai interessato molto alla politica. È con il massacro a Bangkok dei manifestanti per la democrazia quell’anno (poi al centro del documentario The Terrorists) che ho iniziato a interessarmi di più, a leggere molti libri come quelli di Benedict Anderson (grande studioso del Sud-est asiatico). Così ho capito che da quando sono nato a oggi c’è in pratica sempre stato un controllo nel mio Paese e leggendo anche 1984 di George Orwell mi sono poi ispirato al suo romanzo per il film Supernatural riprendendo la frase: Chi controlla il passato, controlla il futuro.

Ad accomunare i suoi film c’è l’attenzione ai corpi, in una rappresentazione quasi sacrale che in Italia fa pensare a Pasolini.
Conosco Pasolini, ma devo dire che non mi sono ispirato a lui. Il riferimento non è così alto, riguarda più che altro i melodramma thailandesi. Sulla rappresentazione del corpo ci sono comunque delle contraddizioni nella società della Thailandia: da una parte in televisione, negli show e nei drama, si vedono questi corpi molto performanti. Dall’altra nella mentalità comune la nudità è ancora un tabù.

E al cinema cosa piace ai thailandesi? Lei è un regista indipendente, ma cosa propone l’industria cinematografica?
A dominare sono le commedie e i ghost movies. A me interessa fare altro.

Sa già cosa vuole raccontare nel prossimo lavoro?
Ho da poco finito le riprese del mio nuovo progetto. Riguarda il massacro di una minoranza nel nord del Paese, nel 1982 quando si festeggiavano i duecento anni di Bangkok come capitale. Un fatto che la maggior parte delle persone in Thailandia oggi non conosce.

I suoi film viaggiano nei festival, ma in Thailandia riesce a farli vedere, considerando i temi trattati?
Con la situazione attuale è impossibile. Li faccio vedere ai miei amici, piccoli gruppi di persone. Ma come noi guardiano film del passato, anche di cento anni fa, ho la speranza che in futuro possano essere utili almeno come testimonianza di quello che succede oggi.



Fabio Canessa

Viaggio continuamente nel tempo e nello spazio per placare un'irresistibile sete di film.  Con la voglia di raccontare qualche tappa di questo dolce naufragar nel mare della settima arte.

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