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The Way Back

Una immagine tratta da The Way BackIl ritorno al cinema di Peter Weir è un film di grandi paesaggi e una semplicità d’altri tempi, che purtroppo s’accoppia a una scrittura del personaggio banale e incapace di coinvolgere oltre la superficie

A distanza di due anni dalla data di uscita ufficiale nei paesi più (culturalmente/cinematograficamente) civilizzati, arriva anche nelle sale italiane l’ultima fatica di Peter Weir, regista multiforme e di gran mestiere che negli anni ci ha regalato emozioni e avventura con Picnic a Hanging Rock, L’Attimo Fuggente, The Truman Show e Master and Commander, sua prova più recente seppur discretamente lontana nel tempo ormai (2003); e nelle sale ci arriva con a rimorchio un bel carico di curiosità accumulata nei due anni di ritardo sopracitati. Curiosità che tuttavia, durante e dopo la visione del film, scema rapida come acqua corrente in fuga dall’insipida storia e dalla purtroppo spesso sbrodolata prosopopea di una didattica vetero-hollywoodiana tanto rocciosa e anti-sovietica da ricordare un certo maccartismo di ritorno che nell’anno 2012 è davvero difficile non considerare almeno fuori posto.
La storia, insipida come detto, è anche piuttosto semplice: un gruppo di prigionieri fugge da un gulag staliniano, ai tempi della seconda guerra mondiale, e si avventura a piedi verso sud, attraversando Siberia, Mongolia, Cina e Tibet sulla via della libertà. Lungo il cammino, ça va sans dire, molte difficoltà da superare e qualche caduto tanto prevedibile quanto inevitabile. Ora, con una trama del genere l’ignaro spettatore potrebbe aspettarsi stupendi paesaggi e grandi emozioni, nel bene e nel male. Alla fin della fiera, tuttavia, rimangono negli occhi solo i primi, mentre il lato emotivo viene affossato da una superficialità della scrittura dei personaggi che sembra uscita da un film d’altri tempi, tempi in cui il personaggio-macchietta poteva salvarsi per il solo fatto di portare il volto di attori carismatici e vere star; qui ed ora, questo non ci è più dato. Tocca allora accontentarsi del duro volto di Ed Harris, ingegnere americano immigrato in Russia durante la Grande depressione e finito poi in un campo di prigionia a migliaia di chilometri da casa, e parzialmente di un Colin Farrell duro di pellaccia e finalmente più credibile della media in un ruolo simile, anche se il palesemente artefatto accento russo che sfoggia rischia di tingere di ridicolo un personaggio riuscito pur nella sua monodimensionalità (sorvoliamo sia sull’innocuo protagonista Jim Sturgess che sull’unico, improbabilissimo, personaggio femminile, col volto di Saoirse Ronan).

Il resto, farina del sacco di un soggetto non originale derivato dal romanzo di Slavomir Rawicz, dichiarato con una certa fierezza come basato su fatti realmente accaduti anche se molto probabilmente mero frutto di un’immaginazione un po’ troppo fervida dell’autore, ex soldato polacco che in un gulag c’è stato per davvero, ma per esserne rilasciato nel 1942, e senza viaggi a piedi attraverso l’Asia dunque. Questo è un po’ il peccato originale di The Way Back, ma il problema è che non si tratta dell’unico, e a pesare sull’impatto del film più che la balla storica sul quale si basa è la banalità con cui, come si anticipava, sono (non) sviluppati i suoi personaggi e soprattutto le dinamiche tra essi. Visto il contesto della storia, e visto il dispendio di mezzi e le capacità tecniche del regista (pur dimostrate pure in questo frangente), si poteva/doveva fare di più.

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