The Enemy
- Scritto da Paolo Villa
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A metà degli anni ’90, le ceneri del conflitto del Balcani quasi non si erano ancora del tutto spente (mancava infatti il Kosovo, alla conta), e già la diaspora culturale di un cinema vitale e poco conosciuto regalava roba come Underground (Emir Kusturica, 1995) e Lepa Sela Lepo Gore (Srdjan Dragojevic, 1996), roba in cui la Guerra dei Balcani assumeva attributi di universalità e umanità che sconvolgevano sia per la banalità delle cause che per l’inevitabilità degli esiti. Negli anni a seguire quel conflitto, e quella minacciosa allegoria della polveriera etnico-sociale su cui poggia il concetto stesso di Europa, è stato poi raccontato con altri toni e in altri film, ma l’assunto di fondo che basta un nulla, una piccolissima scintilla, a far esplodere una guerra, una guerra civile, è rimasto intatto. Qualche lustro dopo, di qui parte Dejan Zecevic, regista di discreto successo in patria, per mettere in scena con Neprijatelj (The Enemy è il titolo internazionale) la sua versione personale di questa guerra: una versione psico-antropologica, ambientata ai margini fisici spazio-temporali del conflitto, per entrare nel dominio intimo e ambiguamente metafisico delle sue radici. Siamo infatti al confine tra la Bosnia e l'allora Serbia-Montenegro, pochi giorni dopo il termine ufficiale della guerra; qui, un drappello di soldati dell'esercito serbo è impegnato in attività di sminamento e nell'attesa che arrivi chi dia loro il sospirato cambio. Succede tuttavia che un giorno, ritrovato murato vivo nei sotterranei di una fabbrica bombardata, un tipo piuttosto strano piombi nel loro quartier generale: dice di chiamarsi Daba, non sente fame e freddo e soprattutto sfoggia una calma e un sorriso inquietanti. Nemmeno il dubbio che la vera natura di questo prigioniero sia non umana fa sedimentare l'ansia e il mistero che Daba porta tra i soldati. Mistero, e ambiguità... e lo sfondo di desolazione e freddo, sul confine di due paesi e una guerra circondato da campi minati e alberi spogli: questi i tocchi di classe che distaccano Neprijatelj dal solito genere e ne fanno un riuscito thriller psicologico di grandi e incisive interpretazioni corali (sopra tutti l'impassibile e subdolo Daba di Tihomir Stanic) capace anche di centellinare un azzeccato humour nero quando serve.
Piccolo piccolo per mezzi e anche per intenzioni, Neprijatelj si fa grande come perla di equilibri tra poli respingenti che regala pane sia alla panza che alla mente, tra dubbio e (forse) redenzione, e si fa specchio del (ex)paese da cui proviene, agli occhi di un'Europa divenuta ormai indifferente al tormento di quella sua parte irrequieta che vent'anni fa gli ricordava il significato – scordato o solo accantonato - della parola guerra. Per non dimenticare che la guerra, è prima di tutto un fatto interno, interiore, e il nemico più pericoloso è quel che più ci somiglia.
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