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Still Life - Recensione

Una favola quotidiana, raccontata in tono minore, che canta la resistenza di un cinema ancora capace di semplicità perché orgoglioso e innamorato della propria storia, del proprio protagonista. Uberto Pasolini ci insegna che, anche nel mondo veloce e global dell’oggi, tra l’esistenza in vita e quella in morte ci sono spazi per essere umani

Quando un film ci colpisce nel profondo spesso succede che le parole non vengano fuori tanto facilmente. Poco da fare, la nostra mente è gelosa del bello per come interiormente lo percepiamo, dell'emozione per come la proviamo. Questo è quello che succede con questo Still Life, quando i commenti e i discorsi non vengono più tanto bene, tanto a fuoco, e allora tanto vale limitarsi a raccontare, raccontare la storia di questa favola e del suo protagonista: John May.
John May lavora in un piccolo ufficio del comune, in cui si dedica a curare le cerimonie funebri e le sepolture di chi muore senza lasciare parenti o persone vicine che se ne occupino. John May è un omino lento, calmo e solo. Solo come i protagonisti dei suoi casi funebri. Meticoloso ai limiti del contemplativo, indaga tra le poche cose lasciate dai morti: fotografie, dischi, diari, rubriche telefoniche, alla ricerca di indizi sulle loro vite, le loro giornate, i loro amori, le loro storie passate nel tritacarne della vita, dimenticate da tutti, o quasi tutti. La vita di John May è lo specchio di quelle vite spezzettate, perdute e riflesse solo da qualche istantanea in un libro di foto ingiallite; forse è per questo che le ha tanto a cuore, che ne fa la sua personale storia di ricerca. Still Life lo prende così, nel mezzo del cammin di sua esistenza, quando un giorno come tanti il borioso superiore dell’ufficio comunale (tutto giacca e cravatta e libri di economia) lo convoca per dirgli che le sue mansioni saranno trasferite a breve ad un altro distretto, più produttivo, efficiente e sbrigativo. Il tempo è denaro, si sa, e a John May rimangono solo tre giorni per occuparsi del suo ultimo caso, quello di William Stoke: anonimo alcoolista che, per una delle bizzarre coincidenze delle storie che si raccontano più volentieri come quelle vere, abitava, non notato da nessuno, esattamente di fronte alla casa di John May.
Il film racconta di questo incontro tra due persone tanto vicine per distanza spaziale quanto sconosciute l’uno all’altro: un incontro tra un uomo che non c’era e un uomo che non c’è più, costruito un passo alla volta e pian piano seguendo ritmi e movenze di John May, piccolo eroe invisibile di una storia minuscola ma universale.
Sulla strada della ricerca di John emergono alcune cose nel passato di William Stoke: un ex collega dello stabilimento di alimentari, la vecchia fiamma che lo aveva portato a cucinare fish and chips in una cittadina sul mare, la guardia carceraria che se lo ricorda appena, due compari senzatetto cui basta una bottiglia di whisky scadente per aprirsi ai ricordi del tempo trascorso insieme a William, e soprattutto una misteriosa ragazza, protagonista da bimba dell’unico album fotografico ritrovato a casa del morto. Nella mente di John May, il suo viaggio di ricerca traccia in modo graduale la parabola di William Stoke da sconosciuto ad amico, al ritmo del treno suburbano che lo porta in giro per l'hinterland londinese. E ogni passo avanti è per John May un passo dentro la consapevolezza della propria piccolezza, una piccolezza che tuttavia può essere in grado di cambiare il finale di partita sia per lui che per William.
Uberto Pasolini, al secondo film da regista dopo il lieve Machan, si muove in punta di piedi dentro la storia che racconta, quasi impaurito dal rischio di disturbare il suo piccolo protagonista e la sua routine fuori dal tempo, ma non per mancanza di idee, che anzi ha molto ben chiare, su come descrivere il proprio personaggio, cosa dire e mostrare e soprattutto cosa tacere e non palesare. Al principio il meccanismo è al limite dello straniamento, ma presto il coinvolgimento cresce e l’emozione si prende tutto lo spazio possibile, e alla fine resti con solo le parole per raccontare.

Un grande esempio di cinema innamorato della sua storia, che sente l’urgenza di mostrarla a tutti senza sciuparla, e dei suoi protagonisti, tra cui la parte fondamentale la gioca un meraviglioso John May interpretato da Eddie Marsan. Dalla Mostra veneziana se n’è andato con il premio per la Miglior Regia della sezione Orizzonti. Meritava probabilmente di più.

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